Everycult: Il ponte delle spie di Steven Spielberg

L'Everycult della settimana è dedicato a Il ponte delle spie, diretto da Steven Spielberg e scritto da Joel e Ethan Coen.

Everycult: Il ponte delle spie di Steven Spielberg
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La carriera di Steven Spielberg, dopo i capolavori degli esordi, tra la seconda metà degli anni '80 e per tutti gli anni '90 è andata comprensibilmente alla ricerca di quella legittimazione che alcuni volevano negare ai grandi spettacoli allestiti con Lo squalo, o con Incontri ravvicinati del terzo tipo, o ancora con la saga di Indiana Jones.
Così, quello che è a ragion veduta considerato come uno dei più grandi registi di tutti i tempi diede così il "la" a tutta una serie di tentativi "adulti" per raddrizzare le smorfie di chi aveva storto la bocca di fronte alle sue opere precedenti.
Arrivarono dunque i vari Il colore viola, Schindler's List, Amistad, Salvate il soldato Ryan, film che avrebbero offerto un controcampo più maturo e impegnato a lavori di fantasia come Jurassic Park, ET, Hook: Capitan Uncino.
Ma dagli anni 2000 tutta la filmografia di Spielberg si sarebbe fondata sul progressivo avvicinamento di questi due filoni, il grande intrattenimento e il cinema di impegno, che gradualmente sarebbero andati a contaminarsi l'uno con l'altro assottigliando sempre di più la linea che separava lo Steven Spielberg bambino da quello adulto.

Basti pensare che nel 2005 addirittura il regista uscì al cinema con due film superficialmente ossimorici ma fondamentalmente molto simili fra loro (La guerra dei mondi e Munich), nei quali il grande spettacolo si unisce a riflessioni e spunti importanti sulla società moderna.
Il ponte delle spie, in questo senso, è un po' un punto d'arrivo per il cinema spielberghiano: così ampio da toccare ogni aspetto che compete allo spy-movie, è anche uno degli sforzi registici più impressionanti e significativi della carriera dell'autore, e il che è tutto dire.

Ponti e muri

Il protagonista della vicenda, tratta da una storia vera - una costante della filmografia di Spielberg e direttamente riconducibile a quell'ambivalenza tra adulto e bambino - è l'avvocato newyorkese James Donovan (interpretato dall'assiduo collaboratore Tom Hanks).

Nel pieno della Guerra Fredda, Donovan si ritrova a dover difendere in tribunale tale Rudolf Ivanovic Abel (interpretato da Mark Rylance), cittadino russo accusato dal governo di essere nientemeno che una spia sovietica.
Da uomo tutto d'un pezzo qual è Donovan - che per Spielberg incarna i valori assoluti di quell'America che aveva celebrato nel precedente Lincoln, uscito tre anni prima - decide di garantire al proprio assistito un processo imparziale e soprattutto una difesa adeguata, nonostante fin da subito lo studio legale per cui lavora, i suoi colleghi e perfino il giudice assegnato al caso gli fanno capire che il verdetto, per l'agente segreto russo, è già stato deciso.
Il tema dell'individualismo dai sani principi messo in difficoltà da un collettivismo più numeroso ma ingiusto è uno dei cardini del cinema hollywoodiano classico - è il pane dell'opera di John Ford - e in quanto film fortemente classico Il ponte delle spie si concentra sugli sforzi di Donovan per intessere un rapporto con l'accusato straniero ed evitargli la pena di morte.

Pur sotto pressione a causa dell'impatto ideologico e della risonanza mediatica che il processo sta assumendo in tutti gli Stati Uniti e non solo, il protagonista tenterà in tutti i modi di abbattere i muri che separano il suo mondo da quello di Rudolf Abel e addirittura volerà fino in Germania dell'Est per ribaltare le sorti del condannato.
I sovietici, infatti, mettono le mani sul militare statunitense Francis Gary Powell e sono disposti a effettuare uno scambio con Abel. Ma spetterà proprio a Donovan mediare tra le diverse parti coinvolte, con la confusa situazione sociopolitica di Berlino, spaccata in due tra Ovest ed Est, che può solo degenerare quando lo studente americano Frederic Pryor viene ingiustamente arrestato dai sovietici.

Un uomo tutto d'un pezzo

Magistralmente scritto da Joel e Ethan Coen, Il ponte delle spie è la classica vicenda di uomini ordinari in situazioni straordinarie che ha sempre contraddistinto tutto il cinema di Spielberg, tanto quello spettacolare che quello impegnato.

Per l'autore la finzione storica ha sempre ricoperto un ruolo fondamentale all'interno della sua opera, in quanto in grado - a livello di immaginario - di ritagliare in uno spazio ben preciso e circoscritto degli eventi grandiosi che nel presente sembrano irripetibili, ma ancora assimilabili. Storie delle quali, in sostanza, l'oggi fa ancora in tempo ad apprendere la morale. Ecco, se la potenza visiva di creare situazioni e orchestrare momenti a livello di messa in scena è sempre fortissima nei due filoni del cinema di Spielberg tout court, il filone adulto può contraddistinguersi da quello bambino (passateci i termini) per un approccio didattico e formativo consustanziale alla narrazione, che da grande e puro divertimento diventa (anche) il momento epifanico per realizzare qualcosa di fondamentale.
Il Ponte delle spie è l'ennesima proiezione umanista di un cinema che, come per Schindler o Lincoln, può arrivare a salvare una vita (e del resto "chi salva una vita salva il mondo intero"). È un film tutto d'un pezzo costruito però su tanti dualismi, a partire da Brooklyn e Berlino e arrivando ai ponti visibili e invisibili, concreti e idealizzati che vengono usati per collegare i due poli.

Due poli che si riverberano su tutto il resto alimentandolo (il freddo e il caldo, il passato e il futuro, la paranoia e la speranza, la guerra e la pace) e che vengono ben rappresentati anche dai due protagonisti opposti ma uguali. Il loquace e sentimentale Tom Hanks, il laconico e rigidissimo Mark Rylance, entrambi patrioti e onorevoli, la cui battaglia (giusta) incarnerà quella rivoluzione al sistema (sbagliato) che il film si auspica.
E tra i tanti ponti su cui è costruito il film, poi, non può passare in secondo piano quello cinematografico e stilistico: Spielberg rilegge la messa in scena classica attraverso la complessità contemporanea, riempiendo le forme del cinema della trasparenza con movimenti e segni espressivi esplicitamente moderni.

Un "doppio gioco" cinematografico neo-classico (termine col quale spesso ci si deve accostare ai suoi lavori) che "tradisce" la natura ambivalente dell'opera, un vero ponte tra la morale di ieri e la necessità di apprendere nuovi valori di oggi ma anche tra il cinema del passato e quello contemporaneo.
E già la scena iniziale, fatta di immagini dentro le immagini, che con la sua mise en abyme bene anticipa ed esplica il rapporto che Spielberg intesserà tra il ricostruito e il reale, e i ponti (il cinema) di cui si servirà per collegarli.

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