Everycult: L'anno del dragone di Michael Cimino

L'Everycult della settimana è L'anno del dragone, poliziesco del 1985 scritto e diretto da Michael Cimino con protagonista Mickey Rourke.

Everycult: L'anno del dragone di Michael Cimino
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Per una fatale ironia, quello che oggi è considerato come uno dei film più belli e importanti di tutti i tempi, cioè I cancelli del cielo, si tramutò in un disastro colossale e, presa la carriera di Michael Cimino, la scagliò contro le lettere cubitali dell'insegna di Hollywood e la ridusse in mille pezzi: toccò all'intrepido produttore Dino De Laurentiis raccogliere ciò che ne restò.
Del resto De Laurentiis ne sapeva qualcosa di disastri. Proprio in quel periodo si stava lasciando dietro l'uscita di Dune di David Lynch, tribolata produzione andata avanti per anni e con diversi autori. Con le spalle rese larghissime da numerosi successi (primo fra tutti Conan il barbaro) decise di raccattare Cimino e imbarcarsi in una nuova sfida: mettere al guinzaglio la sua arcinota megalomania.
Il regista de Il cacciatore, infatti, aveva iniziato insieme allo scrittore Raymond Carver la stesura di una sceneggiatura sulla vita di Dostoevskij, che a un certo punto raggiunge le 220 pagine di lunghezza per un ipotetico film di quattro ore circa. Un altro produttore italiano, Carlo Ponti, che pure ne sapeva qualcosa di pellicole dalla durata esorbitante (ricordiamo la nomination a miglior film per Il dottor Zivago) la sfoglia sulla sua scrivania e la rispedisce al mittente.
I fantasmi de I cancelli del cielo sono dietro l'angolo, Cimino è il ricercato numero uno a Hollywood e nessuno vuole dargli asilo. Ma Dino De Laurentiis si ricorda di un romanzo di Robert Delay del quale detiene i diritti e che nelle mani giuste pensa potrebbe diventare un poliziesco interessante: è intitolato L'anno del dragone.

Fughe di mezzanotte

Oliver Stone aveva vinto l'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale grazie a Fuga di mezzanotte nello stesso anno in cui Michael Cimino aveva perso quella originale per Il cacciatore, film grazie al quale però aveva trionfato in tutto il resto.
È a lui che pensa De Laurentiis per l'adattamento del romanzo di Delay, e nonostante dalla collaborazione tra Cimino e Stone nasca una bestia molto diversa da quella che il produttore partenopeo si aspettava (tantissimi i cambiamenti apportati al romanzo nella sceneggiatura, il più fondamentale dei quali la trasformazione della co-protagonista da giornalista americana a giornalista cinese), per De Laurentiis vale il rischio.
Per Cimino si tratta di una grossa opportunità non solo a livello lavorativo ma anche da un punto di vista artistico: con le modifiche apportate al materiale originale, il detective protagonista Stanley White (Mickey Rourke, che già aveva avuto una piccola parte ne I cancelli del cielo e sarebbe tornato a lavorare col regista anche in Ore disperate) diventa idealmente un successore del Michael de Il cacciatore.
Un altro reduce del Vietnam che, tornato a casa, continua la sua guerra personale in tempo di pace, circondato dalle assurdità e dalle idiosincrasie di una società - quella statunitense - priva di innocenza e identità.

La storia, che Cimino e Stone riempiono di dettagli messi insieme attraverso una serie infinita di interviste, tra cui abitanti della vera Chinatown e perfino mafiosi di Atlantic City, segue un detective che si ritrova al centro di una sanguinosa guerra tra bande per il controllo della Chinatown newyorkese. Il vecchio leader viene ucciso, gli anziani delle famiglie più importanti della mafia cinese nominano come nuovo capo il giovane e ambizioso Joey Tai e il detective White, nel momento più difficile della sua vita professionale e anche coniugale, farà squadra con la giornalista cinese Tracy, della quale rischia di invaghirsi.
Da questa premessa Cimino crea un thriller anomalo, ancorato alla tradizione dell'hard boiled ma tempestato di tutti gli argomenti e le atmosfere più cari del suo cinema.

L'America degli altri

Al centro de Il cacciatore c'era una comunità di immigrati russi, I cancelli del cielo seguitava quel discorso additando il governo degli Stati Uniti come mandante di infidi omicidi, L'anno del dragone racconta la diversità nel cuore di New York e, ancora una volta, le sanguinarie origini del sogno americano, non diversamente da come, anni dopo e seguendo altri popoli, avrebbe fatto Martin Scorsese con Gangs of New York.

Costruita sulle spalle e con le schiene spezzate di una cultura millenaria, quella cinese verso cui lo stesso White prova sentimenti fortemente contrastanti (e per fortuna esistono film che mettono in discussione i propri protagonisti schierandosi anche contro di loro), la nazione di cui Cimino fa parte ma dalla quale si allontanerà sempre più rapidamente è fatta di strati come la Chinatown de L'anno del dragone. Nel sottosuolo le bische, i morti, la violenza, in alto i grattacieli, l'attico di Tracy, quasi etereo e incorruttibile.
Ovviamente Cimino voleva girare tutte le scene del caso nella vera Chinatown, ma il no secco di De Laurentiis lo costrinse a ripiegare - per la prima volta in assoluto - a lavorare in studio.

Eppure, paradossalmente, il talento visionario dell'autore che tanto si era sfogato nelle location aperte dei film precedenti, allo stesso modo si esalta negli spazi circoscritti dei set creando una Chinatown iperrealista che è sia basata sui veri luoghi studiati durante la pre-produzione, sia tremendamente idealizzata come solo il grande cinema sa fare. E il risultato è talmente riuscito che, leggenda vuole, perfino Stanley Kubrick, che da fan di Cimino partecipò alla premiere del film, scambiò le scene girate in studio con scene girate in esterni.
Tra i tratti fondamentali dello stile di Cimino ritroviamo ne L'anno del dragone anche quelli più decisivi: anzitutto la contaminazione tra generi (poliziesco o melodramma sentimentale, sicuramente non è un thriller per come evita appositamente di costruire la tensione nelle scene che invece altri registi avrebbero esasperato), passando per le eterne e ossessive riflessioni sul tempo (che sfugge sempre, che manca da sotto ai piedi, che è fonte di rimorso per il detective) e arrivando soprattutto alla ripetizione dei gesti, alla complementarità dei personaggi, alle anticipazioni e alle rime interne.

La prossemica allestita da Cimino in questo film è la stessa - se non addirittura superiore - dei film precedenti: passa per l'accostamento e l'avvicendarsi dei ruoli di White e Joey. Da manuale la scena dell'incontro nell'ufficio del gangster, dove significati e significanti di preda e cacciatore perdono di senso, o come sia il poliziotto che il malavitoso passano in rassegna i propri uomini in due situazioni diverse del film. Anche per l'eterno ritorno di situazioni e azioni (ad esempio i tre funerali, tutti e tre aperti da un'inquadratura strettissima su un diverso volto a rappresentanza di passato, presente e futuro) e dell'uso di colori chiari per l'antagonista e di scuri per il protagonista (ennesimo ribaltamento operato sui due personaggi, Yin e Yang invertiti di abito).
Tutto in attesa di un finale fortemente melò, che poco si confà alla narrativa poliziesca e che, inquadrato con quello che sembrerebbe quasi un coro eterogeneo da musical (tra i presenti afroamericani, italiani, cinesi, americani), chiude con un accento d'amarezza qualcosa che invece dovrebbe iniziare e che in altri film sarebbe stato considerato evento lieto.
Col cuore spezzato, vedovo e pieno di affanni, Stanley White potrebbe aver superato il suo ottuso orgoglio nazionalista ma c'è un'intera nazione alle sue spalle che per Michael Cimino è destinata a rimanere indietro.

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