Wonder Woman 1984, la recensione del cinecomic DC con Gal Gadot

Dopo due anni d'attesa, sbarca in video on demand il secondo capitolo del franchise diretto da Patty Jenkins, catapultandoci nei mitici anni '80.

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In omaggio all'antica Grecia, culla delle Olimpiadi e parte dell'ispirazione dietro al personaggio, il nuovo Wonder Woman 1984 scritto e diretto da Patty Jenkins si apre con una sorta di triathlon delle amazzoni sull'Isola di Themyscira. Non siamo più ai tempi della Prima Guerra Mondiale ma nemmeno - non ancora - nei favolosi anni '80, perché la sequenza iniziale è un flashback nell'infanzia di Diana, a cui ancora molto piccola viene concesso l'onore di partecipare alla gara. L'idea è di impartire alla futura supereroina e al pubblico la lezione fondamentale del film: per essere vincitori bisogna essere pronti a grandi sacrifici, a non prendere la "strada breve", senza imbrogliare.
Balziamo avanti nel futuro, finalmente sì, nei Fab 80, e il mondo è in netta trasformazione, specie gli Stati Uniti. Il sogno americano è più vivo che mai e a ricordarcelo ci pensa Maxwell Lord, la cui martellante pubblicità sugli schermi a tubo catodico di ogni negozio d'elettronica di Washington DC invita gli americani "a migliorare la propria vita". In realtà sembra che un po' tutti agiscano come peggio credono, incorniciati dalla Jenkins da un look patinato sulla fotografia di quegli anni: pacchetti di sigarette buttati con disprezzo a terra, macchine sportive lanciate a tutta velocità nel bel mezzo del traffico cittadino, ragazzini che rubano occhiali.

È il quadro perfetto del "reaganismo", immortalato ancora meglio dai giganteschi Mall americani e dalla liberalizzazione del mercato figlia dell'ideologia socio-economica e politica legata al 40° Presidente degli USA. In questo contesto così esaltante, persino eccessivo, di entusiasmo contagioso, si muove ancora Diana, che adesso è ricercatrice allo Smithsonian Institution, suo malgrado partecipe a una vita mondana a cui sente di non appartenere, profondamente sola, senza famiglia, senza amici e senza amore. Anche lei desidera qualcosa di più, con le cose che cominciano a prendere una strana e brutta piega dopo una rapina al più grande Centro Commerciale di Washington, l'arrivo di Lord e di una timida e maldestra gemmologa, Barbara Ann Minerva, allo Smithsonian.

L'emblema negativo del Sogno Americano

Wonder Woman 1984 è in linea di massima un buon sequel, molto diverso dal precedente capitolo ma che intenzionalmente, dal punto di vista concettuale, segue dei binari motivazionali e creativi ben precisi e ancorati nel periodo d'ambientazione scelto. Anzi, andando persino oltre, si può dire che proprio il reaganismo e quel modo di interpretare e vivere la società e il mercato siano la base principale del lavoro di scrittura della Jenkins. Da qui risulta chiaro il perché della scelta e della centralità degli anni '80 per proseguire l'evoluzione supereroistica sul grande schermo di Diana, con un richiamo evidente anche alla letteratura distopica orwelliana tanto nel titolo quanto in una sorta di parafrasi cinematografica del Grande Fratello, che qui subisce un trattamento se vogliamo mistico, comunque legato alla trasposizione di Maxwell Lord e all'intreccio principale del cinecomic.
Proprio il villain interpretato da Pedro Pascal è forse emblema principale del Sogno Americano nella sua accezione più ottusa e negativa, volta cioè alla pura realizzazione personale senza remore nel calpestare il prossimo. C'è dietro anche un interessante discorso sulla vittima che si trasforma in carnefice, giustificando così le proprie azioni, e la performance estremamente nicolascageiana di Pascal, espressivamente fluida, divertita, esuberante, aiuta il personaggio a trovare un suo intrigante e fondamentale sviluppo nella storia imbastita dalla Jenkins.

Altro ruolo divertito, spiegato in modo intelligente nella trama, è quello del ben ritrovato Steve Trevor di Chris Pine, sulle cui dinamiche di ritorno non ci esprimeremo per non rovinarvi la sorpresa. Insieme a Pascal, interpretativamente parlando, è il miglior attore in piazza anche rispetto alla performance un po' tirata di Gal Gadot, che resta fin troppo ingessata in più di un'occasione drammatica, e in confronto con la Cheetah di Kristen Wiig, il cui taglio cinematografico è inizialmente fin troppo slapstick e un po' troppo mutevole, non propriamente l'antagonista che ci aspettavamo, sottotono, solo marginalmente convincente.

Problematiche poi, legate a Cheetah e alla stessa Wonder Woman, sono le scene d'azione, piatte, senza polso, con una visione della costruzione action superficiale, prive di una solida narrazione al loro interno e con scelte al limite dell'imbarazzante. Questo ricade infatti sulla riuscita degli scontri e della tensione da essi generata, che non va mai a stupire o affascinare l'audience, che rimane distaccata dalla parte movimentata del cinecomic e più affascinata dal contesto e dal messaggio in arrivo. Rispetto al primo capitolo, in questo senso, c'è un drastico e spiacevole passo indietro, anche se restano intatti i troppi rallenty e stop frame che vanno a comporre l'azione.

La verità è tutto

Possiamo serenamente affermare che Wonder Woman 1984 non vuole dare spettacolo. Sembra quasi un'intenzione dichiarata e in tutta onestà non del tutto sbagliata, soprattutto quando si va a giudicare la formulazione del cinecomic così come pensato dalla Jenkins. Magari richiede più di una visione per essere compreso e apprezzato nella sua valenza tematica di grande omaggio al cinema esagerato ed esagitato degli anni '80, a quegli immaginari scomposti e stranianti dei tanti titoli di genere che riempirono di anno in anno quel decennio storico, questo sì. Eppure, consciamente, non possiamo fargliene una colpa.
Nella sua mancanza di entusiasmo e virtuosismi cinematografici, il film della Jenkins vuole puntare all'unione in un momento di profondo distacco e rispettare l'insegnamento iniziale citato, cioè essere vincitori attraverso grandi sacrifici e senza inganni. In questo la Jenkins non rende nessuno perfetto, neppure la stessa Diana, ma sono le scelte che si prendono a definire chi siamo, ed è così che si crea il contrasto tra protagonista e antagonisti, tra rinunce e desideri.

Il successo personale, l'ambizione sfrenata, il voler essere o avere di più creano muri e mostri da abbattere con decisione, che è come voler ammettere il giusto superamento del reaganismo sopra citato, senza nichilismo e invece con grande umanità, ammettendo a se stessi l'unica verità possibile: che siamo fallaci, ingordi, narcisisti, egoisti, manipolabili, avidi. In una parola sola, umani. Citando però il Visione di Avengers: Age of Ultron, "c'è della grazia nei nostri fallimenti", traducibile in una presa di coscienza volta al miglioramento di se e di conseguenza - anche se lentamente - della società.

Concetto che vale per tutto, dal quotidiano alle tematiche universali più dirompenti o sempreverdi, tutto volto all'inclusione in un'unione globale contro ogni forma di egocentrismo ed esacerbazione. È allora davvero sorprendente il passo di lato della Jenkins, incarnato in una sua evidente adesione a un femminismo di stampo liberale ed egualitario proprio come quello appoggiato e teorizzato dal creatore di Wonder Woman, William Moulton Marston, che nel comporre i canoni morali del personaggio mise al centro del discorso proprio la verità come grande arma della supereroina, emblema della lotta delle donne per il riconoscimento dei loro diritti. Perché la verità è l'unica cosa che possiamo avere. La verità è abbastanza. La verità è bellissima.

Wonder Woman 1984 Dopo due anni di posticipi, scelti od obbligati che siano stati, Wonder Woman 1984 di Patty Jenkins arriva in Italia bypassando la sala cinematografica a favore del noleggio digitale. Problematiche legate alla Pandemia, purtroppo, che però per il titolo in questione non vanno fortunatamente a minarne nel profondo la fruizione, non essendo un cinecomic nato per dare grande spettacolo ma per ispirare e sorprendere attraverso la sua grande lettura del reaganismo e dell'individuo rispetto alla comunità. O meglio, agli interessi del singolo rispetto al benessere del mondo. È un film d'unione in un periodo di distacco, in cui il Maxwell Lord di Pedro Pascal è il mattatore dello show insieme a un divertito Chris Pine nel ben ritrovato ruolo di Steve Trevor. L'azione è inesistente e girata senza polso, superficiale e a tratti quasi imbarazzante, ma la verità è che c'è dell’altro in Wonder Woman 1984 che va analizzato e capito. Per noi non è stato immediato questo meccanismo ma abbiamo compreso le intenzioni della Jenkins e il suo grande lavoro sull’immaginario anni '80 e sul messaggio socio-culturale da lanciare in un momento tanto delicato come il nostro.

6.5

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