Wolfman, la recensione del remake de L'Uomo Lupo

Recensione del remake de L'uomo lupo, prodotto e interpretato da Benicio Del Toro.

Wolfman, la recensione del remake de L'Uomo Lupo
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Negli ormai lontani anni Trenta e Quaranta, la Universal pictures distribuì una serie di lungometraggi horror che, aventi per protagoniste creature quali Dracula il vampiro, il mostro di Frankenstein, la mummia e l'uomo invisibile, finì per originare quel genere d'intrattenimento cinematografico meglio conosciuto come monster movie, o film di mostri. Un genere che vantò la presenza di quelli che divennero veri e propri divi pronti a farsi a ritoccare in maniera raccapricciante i connotati facciali, da Bela Lugosi a Boris Karloff, passando per Claude Rains e il figlio d'arte Lon Chaney jr, il quale - come già abbondantemente discusso all'interno di un nostro speciale qui pubblicato per affrontare l'evoluzione della licantropia cinematografica - divenne particolarmente noto grazie a L'uomo lupo (1941) di George Waggner, in cui vestiva i (pochi) panni e i (tanti) peli dell'essere del titolo alias Lawrence Talbot.
Una pellicola scritta dallo sceneggiatore ebreo Curt Siodmak, fuggito dalla Germania nazista a Hollywood, e che ora torna sui nostri schermi grazie a Wolfman, rivisitazione prodotta e interpretata da Benicio Del Toro che, inizialmente diretta da Mark Romanek, autore del thriller One hour photo (2002), è poi passata nelle mani di Joe Johnston, il cui curriculum dietro la macchina da presa include Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi (1989) e Jumanji (1995).

L'ululato Del Toro

Il protagonista del dittico soderberghiano riguardante Ernesto Che Guevara, quindi, ricopre proprio il ruolo del nobile Talbot, il quale, dopo aver lasciato il sonnolento paesino vittoriano di Blackmoor per dimenticare un'infanzia tragicamente conclusasi con la morte della madre, si trova adulto ad accorrere in aiuto di Gwen Conliffe, con le fattezze della Emily Blunt de Il diavolo veste Prada (2006), nonché fidanzata del fratello, decisa a ritrovare il suo amore misteriosamente scomparso.
Il destino, però, non solo vuole che il povero Lawrence si riunisca al padre a lui estraneo, interpretato dall'immenso Anthony"Il silenzio degli innocenti"Hopkins, ma anche che una sanguinaria creatura in possesso di una forza bruta, che sembrerebbe seminare terrore e morte tra i boschi circostanti, finisca per aggredirlo trasmettendogli l'antica maledizione del licantropo. Una maledizione che, durante le notti di luna piena, lo porta a trasformarsi in lupo mannaro; mentre si scopre innamorato di Gwen e un sospettoso ispettore di Scotland Yard di nome Aberline, cui concede anima e corpo l'Hugo Weaving della trilogia Matrix, approda sul posto per investigare sulla catena di omicidi.

L'implacabile condanna dell'uomo lupo

Con l'immancabile Geraldine Chaplin inclusa nell'ottimo cast, chi si aspettava un edulcorato blockbuster in stile Stephen Sommers, responsabile dei discutibili La mummia (1999) e Van Helsing (2004), dovrà decisamente ricredersi, perché il nostro "lupacchiotto", nonostante la produzione hollywoodiana alle spalle, sembra andarci giù pesante con zanne e artigli.
Fin dal prologo, infatti, a mancare non sono spargimenti di emoglobina, frattaglie, arti e teste mozzate, i quali forniscono la giusta dose di splatter che, durante lo svolgimento della vicenda, non risulta mai gratuita.
Del resto, come già dimostrato attraverso il tutt'altro che disprezzabile Jurassic park III (2001), Joe Johnston sembra cavarsela piuttosto bene con la gestione della violenza su celluloide, qui immersa in una cupa atmosfera che, enfatizzata dalla bella fotografia dell'ormai fido Shelly Johnson, ricorda non poco quella presente nel burtoniano Il mistero di Sleepy Hollow (1999), dal quale, guarda caso, proviene lo scenografo Rick Heinrichs.
Come nella bella favola nera interpretata da Johnny Depp e Christopher Walken, infatti, l'aria che si respira, più che essere vicina a quella dei succitati monster movies Universal, rimanda in maniera evidente alle produzioni della storica Hammer inglese, la quale sfornò nel 1961 quel L'implacabile condanna di Terence Fisher da cui il film non solo riprende diverse situazioni (si pensi alla sequenza in cui il licantropo cammina sul cornicione di un edificio), ma ricalca in maniera fedele il look dell'uomo lupo allora interpretato da Oliver Reed.
Look ora curato dall'infallibile Rick Baker, vincitore del premio Oscar per Un lupo mannaro americano a Londra (1981) di John Landis, citato anche in una sequenza che rilegge il massacro di Piccadilly Circus e le cui ancora oggi innovative trasformazioni, tra deformazioni degli arti e del viso, vengono qui digitalmente rilette in una fusione con quelle più classiche appartenenti proprio al film di Waggner e ai suoi vecchi derivati.
Con tanto di incubi e allucinazioni, per un prodotto che, pur senza eccellere, risulta decisamente al di sopra della media, forte anche di un discreto ritmo narrativo che permette alla visione di scorrere via senza annoiare affatto.

Wolfman Più vicino a L’implacabile condanna (1961) di Terence Fisher che a L’uomo lupo (1941) di George Waggner, del quale dovrebbe essere il rifacimento, il licantropo di Benicio Del Toro, forte anche dell’apporto di un lodevole cast tecnico-artistico comprendente la costumista Milena Canonero e il mago degli effetti speciali di trucco Rick Baker, lascia tutt’altro che insoddisfatti. Sicuramente, il regista Joe Johnston non è Joe Dante, ma dimostra comunque di cavarsela più che sufficientemente nel trasferire tra le lussuose e “pulite” pareti di Hollywood quei tanto disprezzati quanto efficaci elementi spesso al servizio dei b-movie e dell’exploitation. Elementi che, al di là di effetti digitali non sempre convincenti, consentono fortunatamente alla godibilissima operazione di distaccarsi dallo scialbo revival anni Novanta segnato da discutibili lavori come Frankenstein di Mary Shelley e Wolf-La belva è fuori, talmente edulcorati da mettere a suo tempo in serio pericolo il destino del cinema horror. Il giudizio finale, quindi, è un 6.5 orientato comunque verso il 7.

6.5

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