Recensione White God - Sinfonia per Hagen

Il film vincitore nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2014 è un'opera sospesa tra due anime ben distinte: una più verosimile e drammatica, e una seconda caratterizzata da venature quasi orrorifiche...

Recensione White God - Sinfonia per Hagen
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Lili (Zsófia Psotta), una ragazza appena adolescente che suona la tromba in un’orchestra scolastica, si trasferisce a vivere con suo padre Dániel (Sándor Zsótér), addetto ai controlli della carne in un mattatoio, in un appartamento in un condominio di Budapest. Lili porta con sé il proprio cane, il meticcio Hagen, al quale la unisce un profondo legame; ma suo padre, uomo burbero e scostante, si rifiuta di pagare la tassa imposta dal Governo ungherese sui cani non di razza, e in un impeto d’ira nei confronti della figlia abbandona Hagen ai bordi di una strada. Animata da una fredda determinazione, Lili decide che tenterà in ogni modo di ritrovare il proprio cane, a costo di avventurarsi da sola nei bassifondi della città, mentre lo sventurato Hagen, solo e terrorizzato, è costretto a vivere una terribile odissea pur di sottrarsi agli agenti del canile pubblico, finendo però per incappare in un pericolo ancora maggiore: essere ‘arruolato’ come cane da combattimento per gli incontri clandestini.

Fra realismo e allegoria

Si potrebbero individuare due film distinti in White God, pellicola scritta e diretta dal regista ungherese Kornél Mundruczó e premiata nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2014, oltre ad essere stata selezionata (senza successo) come rappresentante dell’Ungheria nella corsa all’Oscar. Il “primo film”, che occupa la maggior parte delle due ore complessive di durata, afferisce ad un rigoroso realismo e si suddivide a sua volta in due linee narrative parallele: il tormentato viaggio di Hagen, meticcio docile e affettuoso, abbandonato all’improvviso sul ciglio di una strada di Budapest, e gli strenui sforzi della sua padroncina Lili allo scopo di ritrovarlo. Il “secondo film”, invece, separato da una cesura fin troppo brusca rispetto a quanto visto in precedenza, trasforma l’epilogo di White God in un racconto dai contorni quasi horror, in cui Mundruczó abbandona ogni pretesa realistica per intraprendere una strada diamentralmente opposta, che pare rifarsi al classico di Alfred Hitchcock Gli uccelli e all’intero filone di thriller analoghi, in cui una specie animale - in questo caso il cane, per tradizione il miglior amico dell’uomo - rivela un istinto feroce ed assassino, tramutandosi in spauracchio per una civiltà umana colta del tutto alla sprovvista.

Dog eat dog

Oltre all’apparente disomogeneità fra le due suddette sezioni del film, ciò che vale la pena rilevare è come, in White Dog, l’interessante idea al cuore della trama, ovvero la violenta rivolta messa in atto da un esercito di animali ‘evasi’ dal canile pubblico, arrivi forse in ritardo rispetto ad una prima parte che, al contrario, non risulta del tutto convincente. Se, almeno inizialmente, Mundruczó si rivela in grado di suscitare il pathos del pubblico rispetto alla sorte del povero Hagen, così come al senso di frustrazione e di rivalsa della piccola Lili, il film tuttavia calca in maniera eccessiva sul pedale del patetico e del miserevole: dalla parabola ‘dickensiana’ di Hagen, che sembra costruita appositamente per convogliare - in modo un po’ ricattatorio - i sentimenti dello spettatore, alla facilità con cui la sceneggiatura scioglie ogni conflitto fra Lili e suo padre. Mentre è solo nel finale che White God spicca davvero il volo, in virtù di un apparato allegorico in cui la figura canina del meticcio e del “bastardo” assume la dimensione di un riflesso emblematico delle varie forme di razzismo, di sopruso e di sfruttamento di una società di mostruosa prepotenza. Con una deriva in chiave horror che, però, non viene portata fino in fondo, come sarebbe stato auspicabile.

White God - Sinfonia per Hagen Vincitore del premio come miglior film nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2014, White Dog, firmato dal regista ungherese Kornél Mundruczó, unisce la cronaca di un abbandono, condotta secondo i canoni di un crudo realismo non privo di accenti patetici, ad un epilogo dal taglio allegorico in cui la narrazione passa ad un registro completamente diverso; peccato, tuttavia, che il discorso ‘politico’ e la riflessione sulla brutalità dell’essere umano non raggiungano una vera profondità, anche a causa della sostanziale disomogeneità fra le due diverse sezioni dell’opera.

6.5

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