Recensione Via dalla pazza folla

Dal romanzo di Thomas Gray, il danese Vinterberg cerca di 'ammodernare' il romanticismo vittoriano alla 'plasticità' dei nostri tempi. Ma il risultato non è dei migliori, considerati il ricco materiale di partenza e il potenziale del regista in questione.

Recensione Via dalla pazza folla
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Campagna inglese, 1800. L'orfana Betsabea Everdene (Carey Mulligan), donna testarda, indipendente e sin troppo avanti per i suoi tempi, gestisce una piccola fattoria nella campagna inglese assieme alla zia. Il suo benestante vicino e talentuoso fittavolo Gabriel Oak (Matthias Schoenaerts) la chiederà in sposa, ma lei rifiuterà, dichiarandosi troppo indipendente per contrarre il sacro vincolo del matrimonio con un uomo che non sappia 'domarla'. Eppure, in breve tempo il destino cambierà lo stato di cose ribaltando le condizioni iniziali. Lui perderà la sua intera fortuna. Lei, divenuta ricca a seguito del lascito dello zio, si ritroverà a gestire una grossa e fiorente fattoria con annesso personale di servizio. Senza contare che i suoi modi determinati e la sua femminilità autoritaria non passeranno inosservati nel circondario, tanto che la bella Betsabea subirà i corteggiamenti ostinati di un facoltoso e maturo vicino (il Bolwood di Michael Sheen), per poi cadere rapita nelle braccia di un giovane e borioso sergente dell'esercito dal passato oscuro (Frank Troy, interpretato da Tom Sturridge). Andata in moglie a quest'ultimo, le avventure sentimentali della inquieta Betsabea però non si placheranno, fino a quando l'ereditiera non potrà finalmente, lontana da tutto quel frastuono di pressioni e avvenimenti (ovvero Far From the Madding Crowd) abdicare alla propria raziocinante indipendenza per cedere invece alle ragioni del cuore, così come al suo destino.

Lontano da Thomas Hardy

Dall'omonimo romanzo di Thomas Hardy (Via dalla pazza folla), il danese Thomas Vinterberg traduce per immagini - era già stato fatto tra gli altri anche da John Schlesinger nel 1967 in un film che vedeva protagonisti Peter Finch e Julie Christie - il romanticismo contrastato e rocambolesco di una figura di donna moderna, contesa tra la sua avanguardista idea di libertà e il cappio di una società (quella vittoriana) ancora troppo maschile, dove il matrimonio non rappresentava una scelta ma il risultato di una necessità contestuale, determinata da una precisa analisi di prospettive sociali e occasioni coniugali. Sembra davvero strano pensare che il regista Thomas Vinterberg (noto nell'ambiente per aver dato via assieme al compagno Von Trier quel manifesto Dogma 95 poi condensato nella sua indimenticata opera prima Festen), autore anche de Il sospetto, magistrale thriller sociale e psicologico che solo due anni fa si candidava all'oscar come film straniero, abbia deciso di dirigere un film forse non esattamente nelle sue corde. Del rigore di Vinterberg e del suo cinema penetrante qui c'è ben poco, fatta eccezione per l'accuratezza di una regia che ha senza dubbio i suoi momenti estatici e di una splendida fotografia spesso contaminata da bellissimi giochi di luce. Ma si sa, non è mai facile cimentarsi nella trasposizione di un romanzo, tanto più se il romanzo in questione appartiene a una letteratura di per sé assai ‘corposa' ed è denso e ricco di svolte, quei flebili colpi di scena che, tutti insieme, porteranno la protagonista verso il suo ostacolato destino. L'interessante cast di attori si barcamena come può per rendere il film il più intenso possibile, ma il risultato non rende giustizia allo sforzo, e se (la pur brava) Carey Mulligan sente tutto il peso del portarsi addosso gran parte del film e di un ruolo per lei troppo impegnativo, Martin Sheen diventa quasi una macchietta nella parte del ricco possidente terriero ubriaco di solitudine e d'amore non corrisposto, mentre Tom Sturridge precipita nella parte del sergente fuori di senno. Alla fine a sfigurare meno è proprio il baldo e inflazionato Mathias Schonehart: il suo pastore silenzioso e determinato è forse l'unico tassello più solido di un ritratto vittoriano assai sciapito. A discapito di un'estetica capace comunque di comunicare, qui è infatti proprio l'impianto narrativo a cedere strada facendo, finendo per non rendere giustizia all'opera di Hardy e soprattutto per non essere al passo coi ‘tempi', storici e narrativi che tira in ballo.

Via dalla pazza folla Con Via dalla pazza folla il danese Thomas Vinterberg realizza una riduzione ‘plastificata’, composta e un po’ troppo manierista dell’omonimo romanzo di Thomas Hardy. Un’opera che, priva di carattere finisce, nonostante le buone intenzioni e gli sforzi attoriali, per assomigliare a tanti altri film in costume senz’arte (o quasi) né parte. Basterebbe in effetti (ri)vedere film come Tess di Polanski (anch'esso tratto da romanzo di Hardy), per capire dove e perché il film di Vinterberg stenti in più di un verso a prender forma.

5.5

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