Recensione Venere Nera

La vera storia della 'Venere Ottentotta' Saartjie Baartman

Recensione Venere Nera
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Il difficile e controverso rapporto tra Oriente e Occidente, bianchi e neri, molto caro al regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, assume nella Venere Nera il ruolo di sottofondo culturale alla storia (vera) di dilagante disumanità che vede protagonista una boscimana strappata al suo mondo e costretta al giogo della cultura occidentale. Lo sguardo attento, realista, impegnato e mai troppo giudicante del regista del pluripremiato Cous Cous, è qui al servizio di una storia unica e drammaticamente universale che rivendica la dignità dell'essere umano in generale e della donna in particolare. Una dignità troppo spesso rimpiazzata dagli approcci disumani cui la Storia ci ha abituati, un razzismo perpetrato sempre in nome di un qualche diritto superiore conferito da: smania di scienza, voglia di spettacolo, sete di guadagno o semplicemente pubblico ludibrio.

Dall'Africa all'Inghilterra

Nel 1810 Saartjie (Yahima Torrès), venticinquenne sudafricana originaria del gruppo etnico Khoikhoi, giunge in Inghilterra al seguito di Hendrick Caezar (Andre Jacobs), suo protettore e sfruttatore, convinta che lavorerà in Europa nel mondo dello spettacolo. Ma la cosiddetta Venere Ottentotta, fonte di morbosa ossessione occidentale per via dei suoi prominenti organi genitali e della evidente steatopigia (una particolare prominenza dei glutei), finirà piuttosto per animare il Freak Show europeo in voga nel XIX secolo, esibendosi come un animale in cattività e dando spettacolo del suo corpo, ragione di estrema curiosità e di infantile terrore agli occhi del pubblico inglese che, dopo essersi divertito a sufficienza, in un accesso di moralità farà processare Caezar con l'accusa di abusare e sfruttare Saartjie come una schiava. Al processo la stessa Saartjie negherà le accuse, sostenendo di essere libera e di recitare consapevolmente una parte.

Nella lasciva Parigi

La testimonianza della donna permetterà a Caezar di essere scagionato e, cambiato nome, questi si trasferirà a Parigi dove Saartjie, una volta battezzata e divenuta Sarah, passerà sotto la protezione di Reaux (Olivier Gourmet), addestratore di orsi che vede nell'esotica diversità di Sarah una sicura fonte di reddito e di riscatto sociale. La farà esibire, legata e a quattro zampe come un animale e fasciata in abiti che sottolineano il gigantismo delle sue natiche, nei lascivi salotti dell'alta borghesia parigina, frequentati da ricchi depravati in cerca del voyeurismo più sfrenato, in un crescendo di perdita di dignità e del pudore (del pubblico ‘guardante') che culminerà nella scena in cui un capannello di uomini e donne al limite della depravazione si spingeranno a scrutare e toccare i ‘sensazionali' organi genitali (ribattezzati poi con il termine di ‘grembiule ottentotto') della giovane donna, il cui volto è rigato da lacrime di esasperazione. Da quel momento, abbandonata dal suo protettore e lasciatasi alle spalle la fase di spettacolarizzazione del suo corpo, inizierà per la donna una rapida discesa che dal lavoro nei postriboli a quello sulla strada, la porterà infine a spegnersi in solitudine, per via forse di una polmonite o di un'infezione venerea trascurata. Purtroppo, nemmeno con la morte il suo corpo verrà restituito alla pace meritata o troverà rifugio dagli sguardi bramosi, avidi e scellerati di un mondo che ha sempre voluto vederla per ciò che non era (un ‘mostruoso' e inferiore esemplare di donna), negandole ciò che invece lei avrebbe voluto essere e che era (un'artista eclettica che sapeva ballare, cantare, suonare). In seguito alla sua morte, nel 1815, la scuola di medicina, e in particolare gli studiosi guidati dall'anatomista Georges Cuvier, si approprieranno del suo corpo in cambio di una cospicua somma di denaro, per poter ‘studiare' ciò che Sarah, quando era ancora in vita, si era rifiutata di mostrare alla scienza: i suoi organi genitali. Gli scienziati faranno poi un calco della donna e ne conserveranno il cervello e gli stessi organi genitali (rimasti esposti nel Musee parigino del l'Homme fino al 1976, e tornati in Sudafrica - come dimostrano le belle immagini di repertorio - di solo nel 2002) al fine di studiarne le peculiarità, che sintetizzeranno poi con l'affermazione: "Le razze con il cranio depresso e schiacciato sono condannate ad una eterna inferiorità".


Fascino e repulsione del diverso

Nonostante lo stile sembri apparentemente molto diverso dallo sgargiante mondo di Cous Cous, Venere Nera ha in realtà molti punti di contatto con quest'ultimo: il rapporto tra oriente e occidente da quale si evince una fondamentale incapacità occidentale a comprendere differenti forme e stili di vita, l'attenzione per il mondo femminile, raccontato attraverso corpi (la danza di Saartjie - nella coraggiosa e notevole interpretazione dell'esordiente Yahima Torrès - fa il paio con la danza del ventre di Rym in Cous Cous), volti e movimenti: predominante in Venera Nera è una regia serrata di primi piani che costringe lo spettatore a sfiorare il distacco emotivo della protagonista. Un distacco funzionale al racconto e che serve al regista per mantenersi lontano dalle logiche di circuizione del dramma fine a sé stesso, e che si fa invece portavoce di una storia terribile e reale, che ancora una volta mira a ricordare quanto l'umana specie si sappia spesso rendere disumana dalla morbosa curiosità e dall'irrazionale terrore che genera ciò che ai nostri occhi appare diverso, esotico: poco più grande, poco più scuro o sensibilmente più umano.


Venere Nera Abdellatif Kechiche, regista del pluripremiato Cous Cous, si confronta con la vera storia di Sarah Baartman, ragazza ottentotta portata in Occidente e trasformata in fenomeno da baraccone al solo scopo di lucro (giustificato prima dallo spettacolo, poi dalla scienza). È là dove il filo storico del racconto incrocia la contemporaneità di atteggiamenti discriminatori fin troppo attuali, che il film di Kechiche diventa tragicamente moderno, inducendoci a riflettere sui molti volti della discriminazione sociale, legata a doppio filo al controverso concetto di razze (superiori o inferiori). Un film crudo, e nel complesso troppo lungo, che non manca però di sollevare doverosi quesiti sul nostro status di ‘uomini’.

6.5

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