Recensione V/H/S/2

Il secondo capitolo dell'antologia horror basata sul found footage

Recensione V/H/S/2
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Nel cinema contemporaneo, diretto ad un pubblico sempre più smaliziato e consapevole, ciò che caratterizza maggiormente l'horror è il suo rapporto privilegiato con lo spettatore, che assume qui un ruolo molto più attivo rispetto agli altri generi. La maggior parte dei film horror lavora infatti sulle nostre aspettative, su quello che siamo abituati a veder accadere in determinate situazioni, appagando o disattendendo le nostre previsioni basate sulle precedenti esperienze fatte da spettatori (come gustarsi Quella casa nel bosco se non si è visto La casa?). Più di ogni altra cosa è questa confidenza e consapevolezza da parte del pubblico a permettere all'horror di essere, quando vuole, un genere molto sperimentale, l'unico ad esempio nel quale una tecnica di ripresa (la soggettiva) può trasformarsi in un sotto-genere di successo senza che per questo lo spettatore debba confrontarsi con un impianto teorico o intellettuale (magari presente, ma comunque posto su un secondo livello di lettura). Ci riferiamo ovviamente a quanto accaduto con i pov movies, quella nuova categoria in cui si fondono tra loro mockumentary, found footage o semplicemente film girati come fossero video amatoriali. Solo l'horror poteva permettere quell'esplosione di pov movies cui abbiamo assistito negli ultimi anni, anche se l'estrema accessibilità di questa tecnica e il suo basso costo hanno portato ad una vera inflazione di titoli, nella quale non è affatto facile districarsi per rintracciare il prodotto di valore.

vintage e found footage

E' da questa situazione che è nato l'anno scorso V/H/S, film horror antologico ideato da Brad Miska (il fondatore e direttore del celebre portale horror Bloody Disgusting) per mettere ordine al magma del found footage e fare un po' il punto della situazione. L'idea di Miska era quella di esplorare le potenzialità del found footage all'interno di una cornice vintage che legasse l'escamotage stilistico al vecchio mondo delle vhs, con tutte le interferenze e la bassa risoluzione connaturate a tale supporto elettromagnetico. Per fare ciò Miska ha chiamato a raccolta una squadra di registi scelti dalla scena horror indipendente, assegnando a ciascuno di loro un episodio da incastrare in una cornice volutamente labile e puramente suggestiva. Tra alti e bassi il risultato è stato interessante, soprattutto per aver mostrato le tante applicazioni del found footage in una direzione ben diversa da quella domestica usata da Oren Peli nei suoi Paranormal Activity. Gli episodi di V/H/S puntavano infatti a sfruttare tale tecnica per tornare a raccontare storie horror molto classiche, come il seducente incontro con una donna vampiro o la casa infestata ad Halloween. Ad un anno di distanza dal primo episodio, accolto con fervore in tanti festival internazionali, Miska ha assemblato una squadra quasi del tutto nuova con la quale ha portato avanti il suo progetto. Nasce così V/H/S/2.

analogie e differenze

Rispetto al primo capitolo V/H/S/2 presenta alcune differenze di struttura. Anzitutto abbiamo un episodio e mezz'ora di film in meno, per puntare ad un prodotto più coeso e con meno punti morti (che non mancavano nel primo film). Diminuisce poi il carattere analogico che accumunava i vecchi episodi, attraversati tutti da scariche e interferenze tipiche del vhs, un supporto che ora sopravvive in modo molto velleitario all'interno del film (anche perché gli apparecchi di registrazione sono ormai occhi bionici, microcamere spia e GoPro). La differenza maggiore però sta nel ruolo che è chiamato a svolgere l'episodio che fa da cornice al resto, Tape 49 di Simon Barrett, che rispetto al precedente Tape 56 ha il compito qui di intavolare una vera e propria mitologia attorno alle vhs maledette visionate dai protagonisti. E' come se l'influsso di Oren Peli ignorato nel corso degli episodi dovesse ritornare nel discorso narrativo generale, specie nel modo in cui Paranormal Activity ha costruito un proprio universo di riferimento (per piccolo che sia) un tassello alla volta.  E il compito è svolto egregiamente da Barrett, il cui episodio per quanto frammentato dagli altri crea un alone di mistero del quale percepiamo giusto i primi elementi, lasciandoci la curiosità di andare più a fondo. La storia, che per l'appunto sorregge tutte le altre, è quella di due investigatori privati il cui compito è rintracciare uno studente universitario scomparso. Cercandolo troveranno nella sua casa una massa confusa di materiale video, vhs, registratori, schermi, che i due investigatori avranno la malaugurata idea di visionare.

un-safe haven

All'interno dell'episodio di Barrett trovano quindi posto altri quattro racconti, in cui si va dall'eccellenza alla scarsa sufficienza. A guadagnare il titolo di miglior episodio dell'operazione (compreso il primo V/H/S) è senza dubbio Safe Haven, firmato da Timo Tjahjanto e Gareth Huw Evans. Quest'ultimo, per chi non lo conoscesse, è il regista del cult The Raid - Redemption, furibondo action indonesiano già cult per gli appassionati del genere, e di cui Safe Haven sembra un'estensione naturale per radicalità e violenza. La storia è tra le più classiche, e vede come protagonisti degli aspiranti registi impegnati a sopravvivere ad un rito apocalittico dalla portata devastante. Asciutto e serrato, esploso nella suddivisione dello sguardo in sette punti di vista, tra cui alcune microcamere nascoste addosso ai finti registi, Safe Haven condensa in mezz'ora la materia di un ottimo film horror, non risparmiando un'improvvisa virata nel grottesco verso il finale. Da solo vale sicuramente la visione di V/H/S/2, fenomenale. Il problema è che gli altri episodi si assestano ben più in basso. Il primo, Phase 1 Clinical Trails, trova il suo motivo d'interesse nella commistione con la fantascienza, cui attinge per una particolare trovata narrativa; tuttavia il modo in cui tale idea viene sfruttata è qualcosa di già visto e decisamente poco memorabile. Ben meno ortodosso è l'episodio A Ride in the Park, diretto da Gregg Hale ed Eduardo Sanchez, uno dei due storici registi di The Blair Witch Project. L'episodio, girato interamente con una GoPro incollata al casco del protagonista, ribalta ogni previsione raccontando il ciclo vitale di uno zombie, che per venti minuti si dedica ad assaltare famigliole in campeggio e ciclisti sprovveduti, fino ad un malinconico finale. Spiazzante e divertente, ma anche molto effimero.  A chiudere il film c'è infine lo psichedelico Slumber Party Alien Abduction, diretto dal regista di Hobo with a Shotgun Jason Eisener, che lavora totalmente di luci, suoni e assalti improvvisi per raccontare un grottesco rapimento alieno. Il risultato inquieta per alcune scene, ma lascia anche moltissimi dubbi. Per certi versi infatti è proprio quest'episodio, in buona parte girato con una camera ancorata alla testa di un cane, a palesare meglio di tutti i rischi e i limiti tanto dell'operazione V/H/S quanto del pov movie tutto. Perché l'altra faccia della medaglia nell'avere un genere così trasformista e volubile come l'horror, è arrivare al punto in cui basta trovare la nuova posizione più assurda da cui riprendere in prima persona per credere di poter fare un film, senza avere nulla da dire o mostrare. Ma se la camera-cane non è la morte del found footage, di certo ci va molto vicino.

V/H/S/2 Secondo capitolo del concept V/H/S/, V/H/S/2 è una nuova raccolta antologica di corti horror girati con la tecnica del found footage. Più sbilanciato del primo, V/H/S/2 si fa vedere senza lasciare molto dietro di sé. Si ha più volte la sensazione di essere in un vicolo cieco, privo di idee e vitalità, ma un episodio su cinque è assolutamente notevole. E' Safe Haven, di Gareth "The Raid" Evans, che merita da solo la visione.

6

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