Recensione Uomini di Dio

Uomini di pace in una terra contesa tra uomini di guerra

Recensione Uomini di Dio
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In merito a quest'ultimo film francese che ha portato a casa il Gran premio della giuria di Cannes e riscosso tanto successo in madrepatria, va subito chiarito un punto fondamentale: il titolo italiano è una contraddizione in essere rispetto alla chiave di lettura meta-religiosa (ovvero che va oltre il valore specifico delle singole dottrine) di questo film francese. Nel titolo originale (letteralmente "Gli uomini e gli dei"), è racchiuso infatti il valore intrinseco di quest'opera che usa la vicenda (la tragedia di Tibhirine del 1996) del rapimento e della successiva uccisione di sette monaci cistercensi in terra d'Algeria, per tracciare un arco di fede e tolleranza che abbraccia tutti gli uomini e tutte le religioni, le credenze, le culture. Qundi tutti gli uomini di tutti gli dei. L'umanità intera. Nei volti e nei corpi di questi sette martiri, che martiri non volevano essere ma solo uomini di pace, giustiziati dal fondamentalismo islamico o, forse, dallo stesso governo algerino (per errore?), è racchiusa l'ombra di un'altra pagina di storia recente intrisa del facile sangue che scorre in nome delle religioni. Come dirà padre Luc citando Pascal: "Gli uomini non fanno mai male, così completamente e allegramente come quando lo fanno da una convinzione religiosa".

Missione di pace in terra di guerra

Anni '90. In cima alle montagne del Maghreb, in Algeria, un gruppo di monaci cistercensi francesi convive in assoluta serenità con la popolazione musulmana del villaggio. La loro vita è scandita da lunghe sessioni di studio e preghiera e dal lavoro nei campi che svolgono con totale abnegazione e amore per quella terra. Tra di loro c'è anche un medico, padre Luc, che ogni giorno visita la gente più diversa, proveniente da remoti angoli di quella regione, e distribuisce con parsimonia le poche medicine a disposizione. Un giorno un gruppo di lavoratori croati viene sgozzato dai fondamentalisti islamici, che seminano paura e terrore in tutto il paese. E poco dopo, gli stessi, faranno incursione nel monastero alla ricerca di assistenza medica e medicine, ma il Priore Christian affronterà con coraggio il loro leader, Ali Fayattia, convincendoli ad andarsene. A quel punto i monaci verranno invitati dal governo algerino ad accettare una protezione armata, che rifiuteranno, decisi a non ricevere l'aiuto di un governo corrotto. Ma il difficile momento insinuerà in loro un dubbio, una piccola fenditura che farà per un attimo vacillare la loro fede, solido pilastro della loro missione di pace. Qualcuno pensa che forse sarebbe meglio andare via, qualcun altro è convinto che si debba restare. Dopo un periodo di riflessione la congrega di monaci si riunisce ancora una volta per votare la decisione. Uniti e compatti, i monaci si dicono risoluti a non abbandonare il villaggio. Ma oramai il clima è sempre più teso e la loro assoluta tolleranza verso il prossimo, che li porterà a prestare assistenza medica anche agli stessi terroristi, susciterà la decisa protesta delle autorità, che li inviteranno a tornare in Francia. Ma i monaci sono irremovibili, tanto quanto la loro vocazione, consapevoli del fatto che quella terra non la abbandoneranno più...

La luce della ‘fede’

Il pregio più raro di questo film del francese Xavier Beauvois è la luce ‘divina' nella quale il regista immerge i monaci e la loro terra, quella che hanno scelto per portare il loro messaggio di pace. È una luce fievole, timida che accarezza le splendide colline punteggiate di olivi secolari, ma anche forte e penetrante, la luce interiore che attraversa le vite dei monaci che con rigore e abnegazione trascorrono le loro giornate secondo il precetto "Ora et labora". Ed è proprio quella luce, che a volte filtra opaca dalle finestre del monastero o si infrange sulla campagna circostante, a raccontare il senso delle loro scelte, delle loro convinzioni, talvolta attraversate dai dubbi e dalle debolezze propri della razza umana, ma mai sottomesse al senso altrettanto umano della paura, dell'istinto, eroico o vile. E qui l'altro pregio: Beauvois non usa la storia per fare un ritratto agiografico dei monaci o per esaltarne il martirio, ma semplicemente per dimostrare che si può, certo animati da un fine superiore, contrapporre l'amore a tutto: alla paura, all'odio, all'egoismo, ai fondamentalismi (non solo quello musulmano). Come il medico Luc disposto a curare uomini per mano dei quali (forse) morirà, o il Priore Christian che studia il corano e abbraccia i suoi fratelli musulmani come figli dello stesso Dio, o di dei diversi, ma poco importa. A questo garbo umano Beauvois affianca il suo garbo registico, condensando tutto il pathos della risoluzione dei monaci nella scena topica dell'ultima cena, dove sulle note de Il lago dei cigni di Čajkovskij, i monaci sorseggiano un ultimo calice di vino, mentre il valore morale di quella decisione si cristallizza nei loro volti spauriti e sereni, turbati e commossi dall'essere lì, insieme, uniti nel loro cammino, che si esaurirà (solo in parte), nella foschia di una bufera di neve sempre più fitta. E mettendo fuori scena quello che sarà il triste epilogo della storia dei monaci, Beauvois chiude il suo racconto di pace in maniera sublime, mantenendo integro il cuore del suo film, senza imbrattarlo dell'agone religioso che resta fuori da questa superba ed emblematica storia di amore.


Uomini di Dio Attraverso l’esempio nobile (qui nella sua accezione più alta) di uomini, prima ancora che monaci, di grande spirito, Beauvois condensa in due ore di cinema un’opera di grande insegnamento: morale e civile. Un’opera che supera i battibecchi religiosi da parrocchia per ergersi al di sopra di tutte le correnti segregazioniste o scissioniste, votate all’abbattimento dell’altro, nel tentativo di comunicare al mondo che vivere in pace e nel rispetto si può, purché tutti noi siamo disposti a ritenerci uomini di Dio alla stregua di tutti gli altri uomini di Dio.

8.5

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