Recensione Un sapore di ruggine e ossa

Jacques Audiard dirige Marion Cotillard in un magnifico dramma privo di lacrime e compassione

Recensione Un sapore di ruggine e ossa
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Liberamente ispirato ai racconti del canadese Craig Davidson, Jacques Audiard traspone in territorio francese la lotta per la sopravvivenza (mentale prima ancora che fisica) di Ali e Stèphanie, un uomo e una donna che il destino farà incontrare lungo la strada del dolore. Si tratta di un racconto potente in cui orrore e bellezza sono due facce della stessa medaglia, una parabola in cui il ‘legame amoroso' è un viaggio sofferto che va di pari passo con la perdita e la lenta riconquista di una propria identità. Come ne Il profeta del 2010, Audiard pone al centro della narrazione storie in cui la caduta libera verso gli inferi diventa strumento concreto per la risalita, permettendo ai suoi protagonisti di mettere a frutto quel "talento" accordato per sopravvivere alle mine vaganti del destino. Il senso di prigionia che ne Il profeta si manifestava attraverso le concrete mura di un carcere, qui muta nella costrizione di un bellissimo corpo mutilato, privato della sua libertà di muoversi e vivere nella stessa indipendenza di un tempo. Un momento in cui tutto cambia e quel vantaggio concesso in partenza (la bellezza e un certo senso di ‘superiorità') sfuma in un terribile caos di impotenza, solitudine, paura. Ma Audiard gioca bene le sue carte costruendo e portando avanti il dramma senza impantanarsi nella tragedia, soffermando piuttosto lo sguardo sul lento risorgere di corpo e spirito.

Lotta di corpi nella sofferenza

Ali ha un figlio piccolo e neanche un soldo in tasca. Si stabilisce nel sud della Francia (precisamente ad Antibes) in casa della sorella, dove presto metterà a frutto il suo passato da boxeur per trovare lavoro come guardia e buttafuori in una discoteca. Così una sera, proprio fuori dal locale, incontrerà la bella Stéphanie (Marion Cotillard), indipendente e (fin troppo) sicura di sé.

Lei è una principessa, lui un rude lottatore. Tra di loro non c'è alcuna possibilità di contatto, eppure il destino è pronto a riscrivere la storia. Infatti durante uno dei consueti spettacoli Stèphanie, che lavora come addestratrice di orche in un parco acquatico, sarà vittima di un tragico incidente che cambierà per sempre il corso della sua esistenza. Sola e improvvisamente afflitta da un senso di insicurezza mai sperimentato prima, la donna cercherà e troverà dietro i modi sbrigativi e (fin troppo) schietti di Ali, una persona speciale sulla quale contare.

Il cinema francese che (ci) piace

Dopo il racconto di formazione criminale, Audiard si cimenta in un dramma dei sentimenti (qui intesi nel loro significato più ampio), racconto nel quale emozione e adrenalina vanno a colmare il vuoto generato dalla vita stessa. I protagonisti si confrontano dunque con il solito carico di ‘prove' messe in campo da un mondo e da una vita dichiaratamente ostili. Grazie all'uso di un espressionismo estetico e grazie alla scelta di due protagonisti endemicamente forti e luminosi (la splendida Marion Cotillard gioca al ruolo dell'angelo che ha perso le ali mentre l'ottimo Matthias Schoenaerts fa la parte del duro costretto dalla vita a ritirare le unghie), Audiard sceglie ancora una volta di narrare il dramma schivandolo, superando presto la soglia della tragedia per passare invece a raccontare la ‘reazione' umana, a sottolineare quella fase di ricerca delle insperate e recondite forze che ci raggiungono solo nel momento del bisogno.

Dolore, forza, affetto, meraviglia si alternano così all'interno di una parabola di vita capace di creare un dolore lancinante quando tocca il nervo scoperto o raggiunge l'osso. E nello schema di reciproco aiuto cui capitoleranno i protagonisti, la lenta risalita di Stèphanie rispecchia il graduale superamento da parte di Ali di quella lastra di ghiaccio che lo separa dal mondo, impedendogli di percepire i sentimenti nella loro giusta sonorità. Le poche e incisive parole e gli ampi silenzi entrano poi a far parte di un linguaggio che predilige l'interazione dei corpi a quella delle voci. Delicatezza e brutalità si alternano infine in un ritratto dolente e maturo di due naufraghi che affrontano le intemperie del mare aperto pur di non (con)cedersi alla deriva. Da sottolineare, oltre all'ottima interpretazione dei protagonisti, anche l'incisiva e toccante colonna sonora di Alexandre Desplat, oramai infallibile chirurgo dell'operazione musicale filmica.

Un sapore di ruggine e ossa Jacques Audiard si lascia alle spalle il dramma carcerario de Il profeta per concentrarsi su quello sentimentale di Un sapore di ruggine e ossa, parabola toccante di sue esistenze che il dramma farà avvicinare. Asciutto e mai ridondante nonostante le sue due ore, quest’ultimo film del francese Audiard rappresenta ancora una volta la capacità di immaginare la vita con occhi nuovi, anche quando la realtà sembra negarne brutalmente la possibilità.

8

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