Recensione Timbuktu

Bello e spietato, un docufilm votato al coraggio e alla denuncia delle ipocrisie fondamentaliste

Recensione Timbuktu
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Il primo film del concorso a Cannes 2014 è Timbuktu, del mauritano Abderrahmane Sissako. Con leggerezza e anche un po’ di ironia la pellicola riesce a raccontare il dramma di un paese in mano a spietati jihadisti, che impongono con rigore e ignoranza un’interpretazione del Corano estrema: musica e sigarette sono vietate, le donne non possono andare in giro senza guanti e calzettoni, non si può neanche giocare a calcio. I trasgressori sono puniti con scudisciate e reclusione, e a nulla vale l’opposizione dell’imam locale, che cerca di riportare alla ragione. Il regista in conferenza stampa è scoppiato in un pianto dirotto: “Sono partito da un fatto vero - ha detto - la lapidazione di una giovane coppia in un piccolo villaggio del Mali, occupato dai fondamentalisti, per di più originari di altri luoghi. I due avevano due figli e la colpa di non essere sposati: il video della loro morte è stato messo online dagli stessi assassini, è una scena orribile, che mi ha colpito anche perché di un fatto del genere nessuno parla. I giornali si concentrano su altre cose, ben più futili, e ogni giorno diventiamo più indifferenti”.

BELLO E SPIETATO

Il cineasta 52enne, per la prima volta in competizione al festival, aveva inizialmente pensato a realizzare un documentario sulla storia della coppia rimasta vittima dell’ignoranza e del cieco fondamentalismo. Qualche retaggio di questa intenzione originaria resta nelle affascinanti immagini del deserto e nella fotografia limpida che contribuisce, se possibile, a rendere ancora di più la crudezza di determinate situazioni. La sapienza di Sissako sta nel saper alternare immagini di violenza fisica e psicologica veramente dure da digerire a sapienti pennellate di ironia, volte a sottolineare l’assurdità e le contraddizioni di quel regime così duro. I jihadisti vietano ai giovani di giocare a pallone - commovente la scena della partita priva di palla - ma poi non fanno altro che parlare di calcio tutto il giorno. Confiscano le sigarette agli altri per poi fumarle di nascosto. Si tratta, insomma, di un incontro letale tra fanatismo e brama di potere, in un mondo dove il possesso di un’automobile rappresenta un lusso inimmaginabile (e infatti i fanatici sono anche fanatici della tecnologia, dalla macchina, alla videocamera, al telefonino). La forma finale del film è un dramma bello e spietato, girato con difficoltà. Sissako non ha potuto girare a Timbuktu e ha dovuto spostarsi in Mauritania sotto la protezione dello Stato. “Sarebbe stato un vero rischio portare la troupe in una città dove pochi giorni prima dell’inizio delle riprese c’era stato un attentato suicida”, spiega. Ma non si considera coraggioso: “Il vero coraggio è quello di chi rimane lì combattendo una lotta silenziosa, che magari vuol dire cantare una canzone nella propria testa”.

Timbuktu Lucidamente spietato nel suo fotografare la banalità della follia, il film del mauritano Abderrahmane Sissako apre con successo il Concorso del Festival di Cannes 2014, riuscendo a raccontare una storia dura in maniera non troppo pesante, alternando i momenti drammatici con sapienti pennellate di humour e poesia

7

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