Recensione Third Person

Un cast d'eccezione (in cui spiccano Liam Neeson e Olivia Wilde) ed un regista premio Oscar (Paul Haggis) al servizio di un racconto intricato, votato al più complicato dei sentimenti

Recensione Third Person
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Tre coppie, tre città, Third person, ovvero terza persona. Sei anime si destreggiano in situazioni diverse eppure qualcosa sembra collegarle tutte, inesorabilmente: in fondo alcuni sentimenti sono talmente universali, senza tempo e senza lingua, che vengono addirittura associati al colore dei fiori - e poi rose bianche, il colore della fiducia, il colore della fede, e delle bugie che il protagonista racconta a se stesso.
I francesi hanno intitolato il nuovo film di Paul Haggis ‘Puzzle’, e non hanno torto: i personaggi del regista premio Oscar per Crash sono proprio pezzi di un puzzle che si incastrano tra di loro al di là del tempo e dello spazio, nella misura di un bigliettino di carta o tra una camera d’albergo e l’altra. Il loro dolore supera i confini del reale, la gestione della perdita viene allontanata, negata, e infine messa nero su bianco in terza persona. Lui è Adrien Brody a Roma, finito per caso ad incontrare una gitana disperata per una figlia da riscattare (Moran Atias). Lui è James Franco a New York, deciso a difendere suo figlio da una madre apparentemente violenta (Mila Kunis). Lui, infine, è il cinico scrittore Liam Neeson che come i suoi libri è crudo, freddo, apparentemente intoccabile eppure con uno sguardo che cerca l’amore della tormentata protetta (Olivia Wilde) lasciando a casa la moglie Kim Basinger a combattere con il senso di colpa ed una piscina vuota. Tre storie, tre città, un unico incessante dolore che per Paul Haggis diventa una complessa analisi di una tripartita mente umana che combatte costantemente contro un se stesso divorato dal senso di colpa, così grande da oltrepassare qualsiasi tipo di barriera eppure confinato all’interno di una sola mente, grido disperato incanalato su fogli di carta.

“watch me”

C’è un tocco di autoreferenzialità difficile da non notare in Third Person, quasi come se Paul Haggis avesse deciso di pennellare le sue stesse paure su Liam Neeson, scrittore vincitore di un premio Pulitzer che battaglia continuamente con l’idea di dover continuare a superare le aspettative, come se la gara con la sua migliore (e premiata) versione di sé non fosse altro che una corsa lunga tutta una vita e difficilmente pareggiabile. Michael non tiene il tempo con quel romanzo da Pulitzer ed esattamente come lui anche Haggis battaglia contro il suo film da Oscar senza riuscire mai a raggiungerlo, confezionando una pellicola dai numerosi difetti anche se indubbiamente acuto.

L’analisi del personaggio di Liam Neeson sull’amore con la A maiuscola, tema del suo prossimo libro, diventa per Haggis una scusa per affondare a piene mani all’interno della sua anima, sezionarla emotivamente, scoprirne in maniera intelligente ogni nervo che lui stesso cerca di seppellire. Tuttavia, per trovare i pezzi del puzzle lo spettatore impiega decisamente troppo ed una prima parte dilatata nella presentazione di situazioni e personaggi non lo aiuta a tenersi ancorato al film. Ciò che Haggis presenta all’inizio non è altro che un insieme di situazioni con pochi e difficili da cogliere indizi, alcune più deboli delle altre (la italiana sopra tutte, che nella prima parte diventa un carosello di luoghi comuni quasi impossibile da associare allo stesso regista che con arguzia affresca la camera da letto parigina ed avvolge Olivia Wilde in perfette angolature).

“le donne hanno l’incredibile dono di essere capaci di negare ogni tipo di realtà”

È tuttavia nella seconda parte che la specificità di Haggis si fa strada timidamente e che la struttura del regista si affaccia in piccole sentenze, da un sussurrato “watch me” - frase chiave dell’intera narrazione, che esprime un bisogno fanciullesco che ci portiamo dietro per tutta la vita - fino al più profetico “le donne hanno l’incredibile dono di essere capaci di negare ogni tipo di realtà”, frase che sembra fatta apposta per portare lo spettatore a sconfessarla con il tempo: le donne del film, al contrario di ciò che l’editor di Michael pronuncia in un tavolino da bar francese, combattono i loro demoni molto meglio degli uomini che, invece, rimangono attaccati ad una segreteria telefonica che pronuncia sempre lo stesso messaggio, o ad una convinzione distrutta da una frase sussurrata in ascensore.

Aiutato da un montaggio che regala momenti di grande stile ed accompagna una regia di classe, la narrazione inizia a prendere forma e anche se troppo tardi alla fine cattura: le immagini prendono un senso, le intenzioni registiche si armonizzano con l’intero contesto ed è lì che il film si esprime al suo meglio, riuscendo finalmente a far emergere le variazioni pianistiche di Dario Marianelli (debole, come tutto, nella prima parte e finalmente riconoscibile nelle scene finali, letteralmente dominate dalle sue note). Grazie ad una scrittura più convincente anche la regia prende finalmente respiro, disegna angolature e passaggi interessanti ed armonizza il tutto con la maestria di Haggis che ben conosciamo.

armonia, incanto, e consapevolezza stratificata in uno sguardo

L’unica cosa che riesce a rimanere indiscutibilmente di alto livello per tutto il film sono invece le performance attoriali, intense ed in alcuni casi sorprendenti: sopra tutti James Franco e Mila Kunis, insospettabilmente intensi e perfettamente calati nei loro personaggi, che regalano forse la coppia emotivamente più intensa del film. Liam Neeson e Olivia Wilde tengono il passo seppur su note diverse, più mature e misurate, capaci di regalare anche all’interno di un’intensa sofferenza dei momenti di humor che strappano un sorriso sincero allo spettatore. La loro è una coppia fatta di complicità, di sguardi, di giochi negati davanti ad una porta della camera d’albergo e concessi dentro un vestito rosso di Valentino, eppure appare anche la più sfaccettata, piena di emozioni e colori diversi. Cosa che invece manca a Moran Atias e Adrien Brody che, seppur convincenti, si muovono sulla linea più debole del film, la meno efficace se non nelle ultime battute - che fuoriescono dal meccanismo iniziale. Menzione speciale anche al cameo di Kim Basinger e a quello dell'italiano Vinicio Marchioni che insospettabilmente convince e regala una performance interessante, seppur marginale, al contrario dell'altrettanto nostrano Riccardo Scamarcio, forzato in un ruolo caricaturale che lui tende ad esasperare fino ad infastidire lo spettatore, e che contribuisce all'idea di ricettacolo di luoghi comuni della prima parte romana.

Third Person Third Person si dimostra un film complesso, e seppur nettamente inferiore a Crash e a Million Dollar Baby presenta una struttura decisa ed un tentativo interessante di sviscerare il tema del senso di colpa e del dolore, obiettivo non facile da raggiungere. Tuttavia la consapevolezza della regia, che ha vari colpi di stile decisamente interessanti, della fotografia e del montaggio, si perdono per colpa di una struttura troppo debole nella prima parte che inizia a convincere troppo tardi, quando ormai il film è già avviato ed il pubblico rischia di essere già perso nella ridondanza iniziale. Nonostante questo, le ottime interpretazioni attoriali ed una seconda parte più intima e finalmente coinvolgente tirano su il giudizio finale che rimane, nel complesso ed in considerazione dell’intero ensemble, appena superiore alla sufficienza.

6.5

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