Con The Vigil il re Mida dell'horror moderno Jason Blum dimostra ancora una volta di avere buonissimo occhio non solo quando si tratta di produrre film dal budget ridottissimo, in grado di incassare decine di milioni di dollari in tutto il mondo (come successo recentemente con L'uomo invisibile), ma anche quando c'è bisogno di mettere mano al portafogli per comprare qualcosa in attesa di essere distribuito, nel quale non aveva creduto nessun altro.
Eppure il lungometraggio d'esordio di Keith Thomas non sfigura per niente nel catalogo dell'acclamata casa di produzione Blumhouse. Ha tutte le carte in regola per mascherarsi da prodotto originale, e se lo fosse si andrebbe a collocare di diritto nella porzione delle opere più riuscite.
Tutto grida Blumhouse: c'è un'idea molto forte e originale alla base, di quelle in grado addirittura di far conoscere al pubblico qualcosa di nuovo a proposito di un popolo e di una cultura, il budget è irrisorio, un barile raschiato fino al fondo senza gettare via nulla (e del raschiare il film farà proprio una sua peculiarità), il grado di paura suscitata è molto, molto elevato.
Naturalmente l'ultimo punto è sempre basato sulla soggettività, ma è l'abilità oggettiva di Thomas a fare di The Vigil un horror minuziosamente costruito.
Shomer
The Vigil racconta la storia di Yakov (interpretato con fare docile da Dave Davis), giovane membro di un gruppo di supporto di Brooklyn: Yakov è disoccupato, è molto fragile, non ha un soldo né una ragazza e sta imparando solo ora a utilizzare il cellulare.
Soprattutto è ebreo in una città spesso crudele con chi è diverso, e fin da subito intuiamo che c'è un triste avvenimento a tormentare il suo passato. Un giorno riceve una proposta di lavoro molto particolare, che però potrebbe fargli comodo: assumere il ruolo di shomer, figura che - come ci spiega il film con una didascalia in apertura - nella cultura ebraica veglia su una salma per proteggerla da tutti gli spiriti maligni che potrebbero tentare di reclamarla durante la "prima notte di morte".
Con le tasche vuote e già qualche esperienza precedente nel campo, Yakov seppur riluttante accetta dunque di vigilare il corpo senza vita di Litvak (interpretato da Ronald Cohen), un ebreo sopravvissuto all'Olocausto che ha vissuto gli ultimi anni della sua misteriosa esistenza in totale reclusione, con la sola compagnia della sua vecchia moglie malata di Alzheimer.
La ricetta perfetta per un film horror è già pronta: sorvegliare un cadavere coperto da un lenzuolo bianco ed esposto in bella vista in soggiorno, all'interno di una vecchia casa poco illuminata e tutta scricchiolii, è già di per sé la situazione ideale per la narrativa dell'orrore.
Attingendo a piene mani dall'immaginario degli ebrei ortodossi, tuttavia, Thomas (anche autore della sceneggiatura) si tuffa nel dark fantasy introducendo al pubblico la figura del dybukk, uno spirito malevolo della mitologia ebraica che attacca chiunque abbia dei ricordi dolorosi.
Senza più Litvak a disposizione, ora l'essere maligno ha bisogno di un altro essere umano di cui nutrirsi.
Una costruzione eccellente
Si paga pegno a qualche goffaggine che vista l'inesperienza è un po' dovuta, ma per il resto Keith Thomas è già quasi in grado di farsi passare per un regista fatto e finito.
Aiutandosi con un sound design perfetto ed enfatizzando con giuste dosi di dramma il dolore dei suoi protagonisti (a ben guardare sono due, uno usato per addentrarsi nella vicenda e uno per spiegarne le origini), il regista si dimostra in grado di padroneggiare al meglio il genere horror costruendo lunghe scene di attesa e dilatando i tempi della suspense fino al massimo consentito.
C'è un'evidente eredità visiva raccolta da un certo Steven Spielberg nella dinamicità dell'organizzazione della ripresa, nel modo in cui Thomas riesce ad allestire diverse tipologie di inquadrature tramite montaggio interno lavorando quindi sul posizionamento e il movimento degli attori nel quadro, cosa che conferisce alla narrazione un'energia laboriosa e intraprendente.
Come in Personal Shopper di Olivier Assayas poi si dà ampio spazio all'uso della tecnologia, in particolare ai cellulari, strumenti tramite i quali è facile essere manipolati nella realtà e che il regista utilizza nel film per mettere continuamente in difficoltà il suo protagonista, sebbene questi si illuda che possa trarne beneficio.
Non mancano analogie con cult del passato (chiaramente L'Esorcista) e il dybukk ricorda non poco il mostro innominato di It Follows per l'ineluttabilità con la quale si avvinghia alla propria vittima.
Ma le intenzioni tematiche di Thomas differiscono totalmente: lo scopo del regista è riflettere sull'indocilità del senso di colpa e sul gesto estremo che è il riuscire a scrollarselo di dosso.
Ultimo appunto sulla sequenza nello scantinato, di gran lunga la migliore di tutto il film per come ci ricorda il valore delle immagini e quanto ciò che vediamo riprodotto in uno schermo sia in grado di toccarci, turbarci e farci voltare indietro per ripensare al passato e magari fissarlo negli occhi. A nostro rischio e pericolo, si intende.
Dobbiamo ringraziare ancora una volta Jason Blum per aver creduto in un horror piccolissimo ma col potenziale di un futuro cult: presentato originariamente al Toronto Film Festival del 2019 e poi semi-dimenticato, The Vigil arriva nei cinema oltre un anno dopo grazie al banner Blumhouse. A dir poco impressionante per essere un esordio sul lungometraggio, l’horror di Keith Thomas offre una riflessione sul senso di colpa e sui demoni del nostro passato giocando con le aspettative del pubblico, allestendo una notevole costruzione della suspense scena dopo scena e divertendosi a fare paura sul serio.