The Open House, la recensione del thriller-horror originale targato Netflix

Dylan Minette e Piercey Dalton alla prese con strane presenze nel titolo diretto da Matt Angel e Suzanne Coote.

The Open House, la recensione del thriller-horror originale targato Netflix
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Porte sempre aperte. Il rapporto tra gli americani e il loro sacrosanto principio di Legittima Difesa ha portato i suoi abitanti, specie quelli di periferia, alla totale indifferenza nei confronti di una giusta prevenzione. Quante volte vi è capitato di vedere un film made in USA e pensare: "Perché mai non chiudere a chiave la porta?". Probabilmente molte, ma la risposta è semplice: senza consenso del proprietario, ogni persona che entra in casa di altri senza permesso rischia di essere uccisa. Sembra un'assurdità, ma la cosiddetta Castle Doctrine si erge a tutela delle abitazioni degli americani e funge da garante del principio di legittima difesa, al quale pone al contempo limiti abbastanza ovvi e una regolamentazione variabile.
Questo, nella sostanza, si traduce in una (quasi) totale libertà d'azione e discrezionalità da parte dei proprietari, che discernendo coscientemente le varie forme di intrusione possono sceglie come agire. Senza troppo generalizzare, questo dà molta sicurezza agli americani, che vivono con la certezza di vedere garantito il loro diritto di proprietà. Da qui si passa allora a ramificazioni sistematiche di pensiero che hanno portato anche alla nascita delle cosiddette Open House, case in vendita (spesso abitate) che vengono mostrate a folti gruppi di sconosciuti accompagnati dall'agente immobiliare di turno. E il film targato Netflix che porta il titolo di tale modus operandi delle real estate fa sorgere il dubbio più grande: chi ci assicura che nessuno dei visitatori possa restare in casa, nascosto e armato di cattive intenzioni?

"Venghino, signore e signori"

Facendo le dovute precisazioni, The Open House è un titolo che probabilmente funziona più in patria che in Italia, data proprio l'assenza nel Bel Paese del metodo di vendita preso in esame. Ma andando più a fondo, si potrebbe rintracciare un problema anche nello stesso principio regolatore che permette agli statunitensi di difendersi liberamente dentro la loro proprietà, e questo spiega il preambolo d'apertura. È essenzialmente assurdo per noi pensare di far entrare ampi gruppi di visitatori in un casa in vendita, proprio perché alla base c'è una tutela più complessa della proprietà e anche perché la legittima difesa potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio secondo una precisa gerarchia di valori per la quale la vita è il bene più prezioso. Si deve agire solo in casi estremi e necessari, mentre oltreoceano basta cogliere uno sconosciuto all'interno della proprietà per giustificare anche un'azione omicida. Partendo allora da un legittimo dubbio, Matt Angel e Suzanne Coote hanno deciso di produrre, scrivere e dirigere una storia che avesse come perno centrale proprio l'inquietudine e l'insicurezza figlie del sistema Open House, necessariamente legate a proprietà di una certa grandezza, non labirintiche o lussuose, ma dalla metratura elevata, periferiche e a più piani. Il tipo di casa, in sostanza, nella quale si trasferiscono momentaneamente Naomi e Logan Wallace, madre e figlio, dopo la tragica scomparsa del rispettivo marito e padre.
Versando infatti in condizioni economiche precarie, i due accettano di essere ospiti della casa di montagna della sorella di lei fino a una ritrovata stabilità. L'unica particolarità è che la casa è in vendita, quindi in piena fase Open House ogni domenica fino alle prime offerte dei potenziali acquirenti.

Giunti in casa, i due si ritrovano a vivere in una vera e propria magione di pietra e legno, cosa che non sembra assolutamente dispiacergli. Mentre la proprietà sembra a posto, però, sono invece i vicini e gli abitanti della cittadina ad apparire un po' sospetti, dalla vicina di casa Martha al fin troppo gentile Chris, che rendono molto sospettosi i Wallace. Come se non bastasse, dopo la prima domenica di Open House, iniziano ad accadere fatti molto strani, come se la casa fosse infestata da strane presenze che agiscono indisturbate nel cuore della notte. E questo non migliorerà una relazioni di per sé già difficile tra madre e figlio, aumentando irrequietezza e angoscia in un palpabile crescendo di tensione.

Deragliamenti

Proprio come Man in the Dark, l'idea alla base di The Open House è affascinante e dal grande potenziale. Nasce dalla voglia di ribaltare sicurezze ritenute erroneamente tali, scardinando la sovrastruttura di certezze legate a qualcosa di semplice che in realtà è ben più articolato e controverso di quanto si possa pensare.

In questo caso c'è la convinzione che il nido casalingo possa dirsi sicuro oltre ogni ragionevole dubbio, tanto che, a dispetto di paure e controlli, i protagonisti se la dormono serenamente convinti di non dover temere alcun male. Se però Angel e Coote posano le fondamenta del loro film su un terreno di indubbia curiosità e potenziale, è lo sviluppo del resto dell'edificio narrativo a convincere molto poco, al netto della grande capacità di riuscire a rendere ogni personaggio secondario una potenziale nemesi. E forse il merito più grande del progetto è proprio quello di sfumare bene i co-protagonisti e la loro psicologia (comunque molto basica) per creare insicurezza nello spettatore sulla loro vera natura, fascinazione che si protrae tra l'altro fino ai minuti finali. Il grande problema del film è che non ha nulla di originale tranne l'idea di partenza, perché tutto si rivela un thriller-horror con un esiguo numero di jump scare da manuale, intesi come classici, senza troppa ricercatezza. Si deraglia molto presto dagli sperati binari qualitativi iniziali per schiantarsi in un territorio fatto di trovate trite e ritrite e -anche per il genere- un po' stucchevoli, tutto fino a un risoluzione finale che lascia un po' di amaro in bocca. Anche le interpretazioni di Dylan Minette e di Piercey Dalton risultano prive di eccessi, positivi o negativi che siano, e troppo incardinate in cliché tipici degli horror anni '80, anche se cambia metodologia assassina e scompaiono i mostri in termini fisici, perché quelli della mente vivono e vegetano sottoforma di costrutti ansiogeni di opinabile fattura e dubbia riuscita.

The Open House The Open House è un progetto senza infamia e senza lode, che fa di una classicità senza pretese stilistiche un'arma a doppio taglio. L'idea di partenza è affascinante e dal grande potenziale ma si perde in una narrazione per jump scare e cliché davvero fine a sé stessa e di mediocre fattura, senza troppe sorprese né troppi spaventi. Il film di Matt Angel e Suzanne Coote lascia un po' il tempo che trova, insomma, senza che riesca a sviluppare adeguatamente un'intuizione iniziale davvero interessante, che sul finale viene invece ricoperta da un velo di insoddisfazione.

5

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