Recensione The Lady

Il festival di Roma apre i battenti con The Lady di Luc Besson

Recensione The Lady
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L'orchidea d'acciaio

È lo straordinario personaggio di Aung San Suu Kyi, paladina del movimento democratico in Birmania, fondatrice della Lega nazionale per la democrazia nel 1988, premio Nobel per la pace nel '91 e donna dal notevole carisma umano e politico, ad aver ispirato l'ultimo film del regista francese Luc Besson, un dramma umano che s'inscrive nel più ampio dramma politico di uno dei popoli più violentemente sottomessi alla dittatura militare. Una lunga lotta per la libertà (che continua tutt'oggi) alla quale Aung San Suu Kyi ha dedicato sé stessa e la sua vita, affrontando in questo lungo e impervio percorso tantissime dolorose difficoltà che l'hanno resa portatrice sana di una lotta pacifica per la democrazia capace di opporsi alla più ostile legge della violenza.

Nel 1947, quando bambina di soli due anni Aung San Suu Kyi (rigorosamente interpretata da Michelle Yeoh) vede per l'ultima volta suo padre (il generale Aung San, leader della lotta indipendentista birmana, fatto fuori dai suoi avversari politici), il suo destino è già scritto. Nonostante, infatti, gli anni di separazione dal proprio paese natio trascorsi successivamente in Inghilterra (dove Suu Kyi sposerà il professore universitario Michael Aris - David Thewlis - dal quale avrà due figli) e l'apparente distacco dalla lotta verso l'indipendenza iniziata da suo padre, quando nel 1988 la donna tornerà in patria per assistere la madre, scoprirà con i propri occhi gli orrori e le violenze che ancora tengono in ginocchio il suo paese. E sarà, a quel punto, naturale e quasi doveroso per lei riprendere in mano il lascito politico e morale lasciatole del padre per ricominciare la lotta là dove il genitore era stato costretto ad abbandonarla. Una lotta che porterà avanti con l'aiuto del suo popolo (eletta a guida per plebiscito popolare) e della sua famiglia (sempre disposta a sostenerla pur nella disperazione di non poterla più vedere). Quelli che seguiranno saranno per Suu Kyi anni di glorie (la schiacciante vittoria alle elezioni del 1990 e l'assegnazione del Premio Nobel l'anno seguente), ma anche di grande buio (la ripresa del potere con la forza da parte della dittatura militare subito dopo le elezioni e il successivo periodo di arresti domiciliari al quale seguirà uno stato di semi-libertà che le impedirà comunque di lasciare il paese - se non in via definitiva - e di vedere i figli e il marito, spentosi - senza più vedere sua moglie - nel 1999 per un cancro alla prostata). Una storia giocata tutta sul filo di valori profondissimi e immarcescibili mirabilmente veicolati dallo spirito di una donna che per la sua esemplare dualità (grazia endemica e indomita forza) è stata poi non a caso ribattezzata l'orchidea d'acciaio.


"Aspettati il meglio mentre ti prepari al peggio"

La fedeltà familiare e la vocazione a preservare i diritti delle comunità sono i valori che accompagnano e sostengono The Lady, un film in cui ritroviamo (poco) la cinetica d'azione cara al regista francese, ma che fa invece ancora una volta leva su una grande figura di donna, che arriva a essere quasi una summa di tutte le qualità delle ‘eroine' femminili transitate per i film di Besson. Un ritratto molto accorto e rispettoso della storia originale (ri)visitato attraverso le lenti intimiste del dramma famigliare che finirà per condurre la donna di fronte alla tragedia di dover scegliere tra il suo popolo e la sua famiglia, e che rifugge invece l'approfondimento più strettamente storico-politico, lasciato quasi a fare da sfondo insieme alla bucolica immagine delle pagode al calar del sole e dei paesaggi mozzafiato che accentuano la suggestione narrativa. Un Besson divulgativo e facilmente accessibile (con qualche vetta d'emozione) che, nonostante la patina melò in cui avvolge la pellicola, riesce nell'intento di portare alla luce questa immensa - ma troppo poco conosciuta - figura di donna che (in tempi di forte crisi dei valori) può rappresentare l'esempio vivente di un valore positivo ante-litteram.

Parola di Luc

In seguito alla proiezione del film abbiamo incontrato il regista che ha sottolineato gli aspetti a lui più cari di questo lavoro...

Besson racconta di aver deciso di voler dirigere lui stesso questo film (sempre grato del fatto di potersi permettere di scegliere con una certa libertà i film da fare), subito dopo aver letto la sceneggiatura di Rebecca Frayn ed esserne rimasto profondamente commosso. Una decisione presa soprattutto per la paura di veder rovinata una storia così bella, e di così grande rilevanza umana e sociale. La sua prerogativa, nella realizzazione di questo progetto, è stata dunque quella di raccontare (nella maniera più veritiera possibile - sia la casa di Oxford sia quella di Myanmar sono il ritratto fedele di quelle reali, e con mano sobria visto il delicato tema affrontato) il racconto di umana sofferenza affrontato da questa donna (e dalla sua famiglia) in nome della libertà del suo popolo; una lotta di 30 anni che potrebbe dimostrare (se la Storia vorrà) come la possibilità di raggiungere una maturità democratica senza spargimenti di sangue sia realmente concreta. Una politica di divulgazione che secondo Besson è necessario adottare per accendere i riflettori, ovvero gettare una luce ("qualsiasi essa sia si tratterà sempre di una luce positiva" afferma il regista) su certe situazioni spesso troppo trascurate. Racconta inoltre Besson che è stato bello contribuire con il film a quel processo di mobilitazione che, proprio durante le riprese e creando dunque un toccante parallelo con la realtà dei fatti narrati, ha fatto sì che Aung San Suu Kyi venisse liberata (proprio il giorno in cui anche lui aveva girato la scena della liberazione), in parte, in quanto restava comunque impossibilitata ad abbandonare la Birmania, visto che non l'avrebbero più fatta rientrare. "E questa rinuncia a una vita normale", ha dichiarato Besson, "rappresenta un atto assoluto d'amore e d'impegno da divulgare".


The Lady Luc Besson si getta nel ritratto (poco) epico e (molto) intimista di Aung San Suu Kyi, che in nome di una pacifica lotta per la democrazia e per la libertà del (suo) popolo birmano, ha abdicato alla libertà della sua stessa vita, costretta per molti anni all’isolamento fisico e mentale. Una storia raccontata con onestà e rigore morale che si concentra sullo sviluppo personale (amplificato dalle interpretazioni intense ma misurate dei due protagonisti) sacrificando (in parte) quello prettamente storico/politico, ma che ha ciò nonostante il pregio di rendere giustizia alla luce che hanno il diritto e il dovere di conquistare storie come questa.

7

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