Recensione The Illusionist

Vi prometto che gradirete lo spettacolo

Recensione The Illusionist
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A volte, un incontro può cambiare la vita. I più disillusi, o più banalmente i pragmatici, ne imputeranno la colpa (o l’eventuale merito) al caso. Risulterebbe però un po’ pretestuoso, forse, ostinarsi a negare un qualsivoglia genere di ingerenza superiore se, camminando per il consueto, deserto sentiero di campagna, ci ritrovassimo all’improvviso faccia a faccia con un misterioso figuro, apparentemente in nostra attesa all’ombra di un albero di cui fino al giorno prima non c’era traccia alcuna. E se lo strano individuo, invece di chiederci ragguaglio sull’itinerario da seguire per raggiungere questa o quella meta, decidesse di deliziarci con mirabolanti giochi di prestigio, per giunta dissolvendosi nel nulla, seguito a ruota dall’albero, al termine della performance, il sospetto che qualcosa o qualcuno stia cercando di darci un suggerimento potrebbe anche venirci. Certo, non tutti siamo fortunati come il giovane Eduard Abramovitz. Difficilmente ci vengono forniti indizi su come fare buon uso del tempo che ci è concesso, su come lasciare una traccia nella storia, o anche solo su come angosciarci un po’ meno sul futuro, consci di avere uno scopo, pur banale che sia. Naturalmente, possiamo consolarci oggettivando i fatti: il curioso aneddoto sopra riportato altro non è che una leggenda. Di sicuro, però, le leggende non trovano terreno fertile, in assenza di una grande personalità a cui fare da contorno.

E una grande personalità può avere le sue origini dovunque, anche nella bottega di un ebanista nella Vienna di fine Ottocento. Perché il grande Eisenheim, l’illusionista che ha conquistato un Impero, non è sempre stato il grande Eisenheim: un tempo intagliava decorazioni nel mobilio di qualche famiglia nobile, emulando il mestiere del padre. C’è da dire che già si dilettava con la prestidigitazione, e che proprio grazie ai suoi giochetti singolari aveva attratto l’attenzione della giovanissima baronessa von Teschen, fin dalla più tenera età alquanto democratica nelle proprie frequentazioni. Non così, come prevedibile, la sua famiglia, decisa come non mai a stroncare sul nascere ogni sorta di rapporto non conveniente (a livello d’immagine quanto negli aspetti più strettamente monetari). Ed è qui che inizia, paradossalmente, la fortuna (almeno quella professionale) del romantico, sognatore, innamorato Eduard: costretto ad abbandonare la capitale per non mettere in pericolo la sussistenza del padre (le minacce sono sempre il minimo sindacale a cui si deve ricorrere per salvaguardare la virtù di una figlia), per quindici anni farà perdere le proprie tracce, ricomparendo poi dal nulla in grande stile, assecondando la regola secondo cui più libertà si lascia alle congetture della gente sul proprio misterioso passato, più il successo è ad una facile portata. Tanto che, nell’arco di pochi giorni, la sua fama arriva all’orecchio del principe ereditario Leopold, sempre alla ricerca di nuove occasioni per mettere alla prova la propria sottile intelligenza: peccato che, nella sua smania di protagonismo, il presuntuoso nobile offrirà la propria promessa sposa come cavia per uno dei numeri di Eisenheim, fornendo su un piatto d’argento la possibilità all’ormai cresciuta baronessa Sophie di ricongiungersi con il tanto rimpianto amore di gioventù. E se è vero che il primo amore non si scorda mai, è altrettanto vero che i due soggetti in questione non fanno nulla per rendere meno problematica di quanto già non sia la loro illecita frequentazione: se Eisenheim si diletta nello sbeffeggiare pubblicamente il collerico Leopold grazie a numeri infarciti di sottintesi, la bella baronessa arriverà addirittura a lasciarlo, mettendo in ridicolo non solo la sua dignità di uomo e di principe, ma soprattutto i suoi piani, tutt’altro che liberali ovviamente, di riassetto politico dell’Impero, possibili solo grazie all’alleanza con la famiglia von Teschen. Non destano particolare meraviglia, quindi, né il ritrovamento del cadavere di Sophie, né le accuse di omicidio a carico del principe Leopold, mosse in principio dal solo Eisenheim, ma che col passare del tempo si faranno sempre più condivise anche dall’opinione pubblica, certo un tantino incentivata dai nuovi spettacoli del nostro illusionista, a base di invocazioni di strane presenze dall’aldilà, tra le quali spicca proprio la sfortunata baronessa. E se anche le indagini ufficiali, coordinate dal capo della polizia Uhl (che pure avrebbe tutto l’interesse a salvaguardare la rispettabilità del principe, considerate le importanti cariche che gli erano state assicurate in seguito all’incoronazione di Leopold), parranno portare nella stessa direzione, la verità apparirà davvero alla portata di tutti. Ma, come recita lo slogan della pellicola, niente è come sembra.

Guardate dentro voi stessi e ripensate al vostro sistema di valori. Avete nella logica, stringente razionalità il principio cardine con cui dissezionate il mondo e ne codificate ogni manifestazione? Non potete fare a meno di chiedervi il perché di ogni fenomeno, e non vi ritenete soddisfatti finché non ne scoprite l’origine o la causa primigenia? Se la risposta è si, allora avete più di qualcosa in comune con il principe Leopold, e quindi non potete amare Eisenheim. Perché la sua illusione non ha un senso, e vi prende in giro più di quanto già non faccia per definizione. In generale, uno spettacolo di prestigio prevede un tacito accordo tra spettatore ed esecutore: chi osserva accetta di essere fregato - e di solito ne gode anche, perché, a differenza di quanto succede di norma, qui non c’è onta nel sospendere l’incredulità -, ma chi dirige il gioco è ben conscio che la differenza tra se stesso e lo spettatore non si misura sul piano dell’intelligenza, né tantomeno su quello delle capacità paranormali, ma è soltanto una questione di metodo, di conoscenza di trucchi, di qualche segreto cui si è stati messi a parte. Un uomo scaltro potrebbe smascherarlo, quasi tutti, con il dovuto allenamento, potrebbero emularne le gesta. Ma con Eisenheim questo non succede: il suo è davvero un bel personaggio, forse il numero più riuscito tra tutte le sue stesse illusioni. Soddisfa la nostra bambinesca curiosità facendoci partecipi di qualche semplice, ma efficace, accorgimento, arriva perfino a svelarci che no, nemmeno il misterioso albero di arance è frutto di una magia, ma solo un banale prodotto della tecnica. Eppure il dubbio sulla natura delle sue capacità permane. Forse qualcosa di sovrumano c’è, nei suoi numeri di evocazione. Certo è che Eduard Abramovitz non faccia nulla per sciogliere questa ambiguità, che sicuramente costituisce un interrogativo molto più avvincente di quelli offerti dalla trama, in verità abbastanza prevedibile finanche nel cosiddetto colpo di scena finale, perfino per gli spettatori meno smaliziati e non troppo solerti nel ricomporre i numerosi indizi disseminati tra le sequenze. A rendere più appassionante la vicenda ci pensano le interpretazioni degli attori, senz’altro all’altezza delle aspettative: se Edward Norton, seppur lontano dai fasti di pellicole come American History X o La Venticinquesima Ora, ci regala una prova più che dignitosa, e Jessica Biel è senz’altro bella da guardare, è Paul Giamatti a spiccare sul resto del cast, riconfermandosi come uno dei volti più interessanti ed eclettici del recente cinema hollywoodiano. La regia svolge il proprio lavoro in maniera discreta, supportata da una fotografia piacevole, in cui dominano i toni caldi, che rievocano la consunzione delle pellicole di una volta, e trova spazio di frequente un simpatico effetto di dissolvenza, che contribuisce a dare un appropriato tocco "favolistico" alla narrazione. Di buona realizzazione anche gli effetti speciali, mai eccessivamente invadenti o pacchiani, ma che non vorremmo avessero pesato eccessivamente sul budget, evidentemente non sufficiente a garantire l’acquisto di un dignitoso paio di baffi finti per impreziosire l’accigliato volto del principe Leopold.

The Illusionist E’ un film che si fa apprezzare, The Illusionist. La narrazione è forse vagamente lenta, il finale un po’ prevedibile, ma la storia (grazie soprattutto al racconto “Eisenheim the illusionist” di Steven Millhauser, da cui Burger ha tratto ispirazione) è più che generosa in quanto a spunti di riflessione: il potere della fascinazione, e in generale dell’immagine, sull’uomo tristemente manipolabile, nonostante il cinismo più o meno ostinato; la vacuità dei giudizi con i quali cerchiamo di categorizzare il campionario di umanità con cui abbiamo a che fare; il ruolo della morale, o più semplicemente della coscienza, nelle nostre scelte di vita; con un Impero che scricchiola sotto la spinta liberale a fare da sfondo al tutto, sulle note del sempre meritevole Philip Glass.

7

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