Quello di The Happy Prince, presentato fuori concorso alla Berlinale 2018, è un progetto che Rupert Everett ha inseguito per anni: dopo aver presentato la sceneggiatura al produttore Scott Rudin, ha prima dovuto imporsi per poter interpretare il ruolo principale (Rudin avrebbe preferito il compianto Philip Seymour Hoffman) e poi aspettare di ottenere i finanziamenti dopo aver deciso, complice il rifiuto di quasi una decina di registi, di esordire dietro la macchina da presa. Un percorso lungo e travagliato per un film molto personale: Everett ha infatti sempre avuto un buon rapporto con i testi di Oscar Wilde, fra teatro e cinema (a convincere definitivamente i finanziatori, oltre alla presenza di Colin Firth in un ruolo secondario, è stata una performance sul palcoscenico parigino, in francese), e i suoi trascorsi personali - una carriera in parte limitata dalla scelta di fare coming out - lo hanno spinto a voler raccontare la parte meno nota del celebre poeta, scrittore e drammaturgo, costretto a vivere in esilio in Francia e Italia dopo due anni di carcere per "reati" omosessuali (come precisa The Happy Prince, Wilde è stato graziato a titolo postumo nel 2017). Un esilio in realtà non privo di svariate parentesi edonistiche, oltre al delirio associato a quelli che alcuni pensano essere stata sifilide, malattia che avrebbe contribuito alla morte dell'autore.
Prima il piacere, poi il dovere
La passione di Everett per la materia trattata è evidente, e l'attore è davvero spiazzante in un ruolo che mai come prima mette in evidenza il suo talvolta sottovalutato talento drammatico (lui stesso sostiene di essere più portato per le commedie, ma con la motivazione giusta è capace di trascendere tale limite). La sua è una performance intensa e straziante, che espone tutte le sofferenze fisiche e psicologiche di un artista tormentato in cerca della sua rivalsa contro un mondo che l'ha condannato. Ed è sostanzialmente lì che si ferma il fascino di un progetto guidato indubbiamente da un desiderio genuino di rendere giustizia all'ultima fase della vita di una firma imprescindibile della letteratura in lingua inglese, ma anche da una non indifferente dose di narcisismo. È particolarmente paradossale chiudere la pellicola con la succitata scritta che si ricollega ai diritti degli omosessuali oggi dopo aver messo in scena per un'ora e mezza un susseguirsi di situazioni stereotipate e caricate fino all'eccesso (particolarmente triste l'episodio napoletano, tra la dizione volutamente "comica" di Everett e Colin Morgan e le reazioni dialettali dei personaggi della zona). Il film procede senza una vera e propria struttura, quasi a voler rappresentare il delirio sifilitico di Wilde, lasciandoci però con un grande vuoto che poteva essere colmato da un racconto più preciso e meno caricaturale. Il principe sarà anche felice, ma il lungometraggio che ne è venuto fuori decisamente meno.
Dopo aver più volte recitato, a teatro e al cinema, nelle opere di Oscar Wilde, l'attore inglese Rupert Everett ha scelto gli ultimi anni di vita dello scrittore per firmare il suo debutto alla regia. Ne risulta un film ambizioso ma squilibrato, dove il talento di Everett nei panni di Wilde deve scontrarsi con evidenti limiti da cineasta, con il rispetto per l'autore che annega in un mare di eccessi e stereotipi. In altre mani poteva uscire un prodotto più che dignitoso, mentre in questa forma siamo di fronte a un delirio che, per quanto occasionalmente affascinante, non è gestito con la cura che meriterebbe l'argomento trattato.