The First Wave Recensione: il documentario sul Coronavirus su Disney+

The First Wave è molto più di un documentario. È uno sguardo diretto e onesto sul Covid-19 e non solo. Vi spieghiamo perché.

The First Wave Recensione: il documentario sul Coronavirus su Disney+
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Non c'è oceano, mare, o spiaggia bagnata da acque mosse e torbide; La prima ondata affrontata dal regista Matthew Heineman lascia i cavalloni per immergersi tra le tempeste di esseri microscopici e letali. The First Wave è infatti il documentario prodotto da National Geographic, disponibile su Disney+ (non perdete i film Disney+ di maggio 2022), che racconta la calamità che ci ha colti alla sprovvista, rinchiudendoci come prigionieri di noi stessi all'interno delle nostre case: quel Covid19 che come uno tsunami tutto ha preso, distrutto, lasciandosi indietro una scia di respiri mozzati e sprazzi di una normalità da ricostruire (negli ultimi mesi, Disney+ ci ha regalato ottimi docu, come dimostra la recensione di L'Ascesa dei Ricordi).

Seguendo a stretto contatto il personale medico e infermieristico del Long Island Jewish Medical Center nel corso dei tre mesi peggiori che hanno bloccato, come una crisi respiratoria, tanto New York quanto il mondo intero, Heineman non si limita a realizzare un documentario come tanti, ma dà vita a una cartolina di sola andata per l'inferno di una pandemia che ancora non vuole lasciarci. Manca il respiro, e deve mancarci, perché ogni volta che inspiriamo ci dobbiamo ricordare quanto possa essere difficile espirare. Una fame d'aria che il film getta e traduce in linguaggio documentaristico lasciando che a parlare siano le immagini e i visi coperti da mascherine o tubi respiratori, come un memento di ciò che abbiamo passato, e di ciò che non dobbiamo attraversare mai più, se non nei nostri ricordi.

Dalla finzione alla realtà

L'essere umano dimentica. Cancella il dolore, taglia i rami della sofferenza, tenta di sradicare i semi che possono far ri-germogliare il ricordo. Lo fa come strumento di difesa. E così, piano piano, le immagini delle fosse comuni, delle ferite, dei segni sul viso di infermieri e dottori stremati, del corteo di bare si assottiglieranno, svanendo giorno dopo giorno.

Ecco perché un'operazione come The first wave è così importante per lo spettatore: è un ponte con ciò che non vogliamo di nuovo rivivere, ma che dobbiamo ricordare, lasciando che si radichi a fondo nelle profondità più estreme del nostro campo mnemonico, per sentirci umani, parti imprescindibili di un tutto chiamato "comunità mondiale". A partire gli anni Novanta la vita si è sempre più inserita tra gli inframezzi dei codici binari dei computer e dei pixel di uno schermo televisivo. Un prestito di materiale reciproco che fa dell'esistenza spettacolo e della finzione vita reale. E così, non solo si è fatta sempre più imponente la mole di documentari, speciali, dibattiti televisivi, che seguono a stretto contatto casi di cronaca nera, rosa, o di stampo politico, ma si è imposto un corollario di serie TV che si slegano dagli abiti di una vita illusoria per parlare del mondo che ci circonda. Un'esplosione che ha provocato la nascita di medical drama sempre più appassionanti, sempre più coinvolgenti.

Lo zapping si ferma e con E.R, Dr. House, Grey's Anatomy, Nip/Tuck, The Good Doctor, termini come adrenalina, bradicardia, asistolia, scompenso circolatorio, fuoriescono dalla sala operatoria per farsi largo tra le pause del nostro gergo comune. Ma questa che scorre sul nostro schermo insieme a The first wave non è finzione. Il documentario girato nel pronto soccorso di Chicago, volto a seguire le operazioni di Mark Greene all'inizio della quarta stagione di E.R ("Diritto di immagine"), si trasforma in un un puzzle composto da sprazzi di vita vera, immortalata per sempre su nastri digitali. The first wave non si limita a narrare: registra gli spasmi, le lacrime di uomini e donne presi momentaneamente dall'anonimato ed eletti a simbolo di malattia, speranza, di lotta contro la morte.

Lo specchio della realtà

Facendo a meno del commento fuori campo e del narratore in voice-over, The first wave lascia che siano le voci degli stessi protagonisti colti sul momento dell'azione a raccontare una storia personale che si erge all'universalità di mille altre rimaste sconosciute, inascoltate, mai raccontate.

La potenza del documentario sta dunque e soprattutto nel suo comparto visivo, sulla potenza di sguardi nascosti da mascherine, ma comunque capaci di esprimere dolore e sofferenza, caparbietà e dedizione. Un viaggio che passa dalle strade di una New York spettrale, ai corridoi in perenne apnea del Long Island Hospital. Un itinerario del dolore lungo tre mesi (da marzo a giugno 2020) che non si limita a testimoniare le difficoltà vissute tra pazienti, famigliari, medici e infermieri, ma anche l'esacerbazione del contrasto sociale vissuto tanto dentro, quanto fuori gli ospedali tra privilegiati e inascoltati. Una lotta impari contro il Covid che in America si fonde con un'altra lotta, quella combattuta contro le discriminazioni razziali. Una duplice sfida giocata sempre in prima linea e di cui si fa massima rappresentante la dottoressa Dougé, pronta a lottare contro il virus nelle vesti di medico, e contro il pregiudizio razziale in quelle di attivista.

Nelle sue vene scorre sangue sia haitiano che americano, mentre davanti ai suoi occhi centinaia di pazienti neri, ispanici, poveri o immigranti, si arrendono alla vita compiendo un ultimo, doloroso, respiro: una dualità fisica, ereditaria e intimista che non può accettare le ingiustizie compiute dal virus, ma anche e soprattutto da una società incapace di slegarsi dalla propria indole razzista che ancora oggi uccide, lasciando senza respiro (come una versione del Covid in carne e ossa) uomini come George Floyd.

Una presa diretta sulla realtà, quella di The first wave, che il regista compie con fare obiettivo, lasciando che siano le immagini a parlare da sé, senza intrusioni di richiamo retorico, mentre a elevarsi a portavoce silenti delle cause e conseguenze del Covid sono il poliziotto Ahmed Ellis e l'infermiera Brussels Jabon. Casi ordinari, che non hanno nulla di speciale, ma che nello scarto di frammenti di un racconto come quello di The first wave, si elevano a sineddoche di un dolore che dal privato si espande, proprio come un'onda, che da una semplice corrente di acqua si può tramutare in uno tsunami.

The first wave Drammatico, ma al contempo lucido e oggettivo nei confronti di una realtà che non cerca di edulcorare o di abbellire con stratagemmi retorici, The first wave è un documentario imprescindibile tanto per gli spettatori di oggi quanto per quelli futuri, affinché nessuna vittima della pandemia venga dimenticata e il dolore sia per sempre custodito, come un respiro che sa di vita.

8

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