Quarto film da regista "solista" del thailandese Kongkiat Khomsiri, Take me home è un horror introspettivo che ben si cala nella cinematografia di genere nazionale, proponendo una storia spiritica calata in un complesso contesto familiare in cui le dinamiche interpersonali assumono valore salvifico e tremendo al contempo. La vicenda vede infatti per protagonista il giovane Tan, un ragazzo vittima di amnesia che vive in ospedale mentre sta cercando di riacquistare i propri ricordi. Una sera tramite l'articolo di un giornale capitatogli di fronte Tan scopre qualcosa sulla sua identità, recandosi nella casa di proprietà della sorella gemella e della di lei famiglia, composta dal marito e da due figlie piccole. Andando alla riscoperta delle sue radici il ragazzo incappa in inquietanti segreti, mentre le sue nipoti asseriscono che in quella casa vivano dei fantasmi.
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Sin dall'inizio Take me home (presentato in questi giorni alla 19esima edizione del Far East Film Festival di Udine) è permeato da una sottile e lugubre atmosfera, capace di trascinare lo spettatore in un incubo ad occhi aperti che agisce in un continuo crescendo andando a toccare le nostre peggiori paure. Kongkiat Khomsiri dimostra un'encomiabile naturalezza nel dar vita ad una palpabile tensione nei novanta minuti di visione, alternando i classici ma riusciti jumpscare ad eccessi emotivi raffinati e toccanti che, tolto il melodrammatico rush finale, viaggiano su avvincenti coordinate mystery capaci di mantenere sempre alta la soglia d'attenzione. La riscoperta delle proprie origini da parte del protagonista, un più che convincente Mario Maurer, assume così un sapore amaro e struggente e la ricerca di risposte si trasforma in un'inarrestabile tour de force orrorifico in cui il ritorno della memoria diventa il peggior nemico possibile: una sorta di viaggio tra due mondi, quello dei vivi e quello dei morti, messo in scena dal regista con inquadrature mai banali e atte a creare un senso di estrema inquietudine, con effetti speciali artigianali d'impatto e situazioni ricordanti in certi passaggi un classico quale The Others (2001). E una volta tanto l'archetipo della casa maledetta è giostrato su soluzioni fresche e spiazzanti che il fine lavoro di sceneggiatura equilibra coi giusti tempi e modi, concedendo al substrato emotivo del racconto la determinante importanza ai fini dell'operazione.