Recensione Synecdoche, New York

Philip Seymour Hoffman regista eccentrico e disperato nel debutto alla regia di Charlie Kaufman

Recensione Synecdoche, New York
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Sineddoche: essa consiste nella sostituzione di un termine con un altro che ha con il primo una relazione di vicinanza. "La parte per il tutto". È questo il punto di partenza, lo stratagemma narrativo e analitico che Charlie Kaufman (sceneggiatore di opere culto come Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee, Confessioni di una mente pericolosa, Se mi lasci ti cancello) utilizza per la sua prima regia Synecdoche, New York. Al centro della storia un regista teatrale di talento (Caden Cotard interpretato da un mastodontico Philip Seymour Hoffman, attore americano scomparso prematuramente lo scorso inverno) impegnato nella messa in scena di una versione moderna di Morte di un commesso viaggiatore del drammaturgo Arthur Miller. Siamo a New York, più precisamente a Schenectady (nome da cui nasce l'ulteriore gioco di parole che dà vita al titolo/sineddoche del film) e la vita dell'affermato regista (affetto da ipocondria e oppresso da una grave smania di morte) è in pieno tumulto, scossa da una profonda crisi creativa e dall'imminente abbandono della moglie Adele, pittrice di successo decisa a proseguire la sua carriera a Berlino portandosi appresso anche la piccola figlia Olive. La disgregazione della famiglia, lo stato annichilente delle psicosi e delle malattie che lo assillano, la presenza di altre donne che non riusciranno a colmare il vuoto lasciato da Adele, confluiranno così in quello che diventerà il lavoro più personale, onirico e reale di Cotard. Con i soldi ottenuti grazie al riconoscimento di un prestigioso premio artistico, l'uomo deciderà infatti di allestire al centro di New York un'enorme sala di posa dove la vita vissuta da sé stesso e da tutti i suoi co-protagonisti andrà in scena intrecciando indissolubilmente realtà e rappresentazione, verità e proiezioni della mente. Dalle donne transitate un attimo o un'eternità per la sua strada (Adele, la figlia Olive, ma anche Hazel e Claire) passando alle comparse del suo vivere quotidiano, per finire con sé stesso, Cotard raggrupperà infine nel suo grande teatro un'allegoria della vita fotografata in tutto il suo divenire e (soprattutto) nella sua pulsione ultima - e inarrestabile - verso la morte.

Tra realtà e finzione, vita e morte

Charlie Kaufman al suo debutto registico propone un'opera assai complessa, che si muove sul filo rosso del doppio gioco verbale e concettuale, attraverso la costruzione di un film che trasforma la vita in matrioske di coscienza e conoscenza. Partendo dall'obiettivo, dall'assunto di convergere verso una ricerca cognitiva dello stato stesso della vita, Kaufman erige sul pilastro meta-artistico di Cotard-Hoffman un personaggio complesso e maledetto, illuminato e tragico che cerca la via della propria risoluzione (artistica ed esistenziale) senza mai trovarla. Registicamente e concettualmente ardito, Synecdoche, New York raddoppia e moltiplica le proiezioni della percezione umana, precipitando il suo protagonista (assieme allo stesso regista) in un flusso assai personale di immagini, pensieri, desideri che si sovrappongono all'infinito fino a svanire nel bianco della morte. Suggestione di una vita impossibile da fermare, cristallizzare o anche solo ricreare, Synecdoche, New York rappresenta nel suo complesso una forma assai ibrida di cinema, mancante di una linea guida eppure piena di simbolismi e riflessioni assai tangibili sull'esistenza stessa. In due ore e una manciata di minuti, l'opera di Kaufman si diverte a seminare e mescolare tasselli di realtà e finzione, vita e morte, catalizzandoli poi tutti attorno all'interpretazione tragica e viscerale di Philip Seymour Hoffman, che sembra esprimere qui tutto il dramma esistenziale (e reale) di una vita vissuta in perenne fuga da sé stesso.

Synecdoche, New York Alla sua prima prova da regista (che arriva in sala a sei anni dalla realizzazione) Charlie Kaufman realizza un film che inquadra il senso di perdizione attraverso un perdersi audiovisivo che riesce in maniera alterna a confondere e illuminare. Criptico e sfuggente per la sua complessa struttura a incastri, Synecdoche, New York trasferisce il suo senso allo spettatore non tanto attraverso i voli pindarici di una regia che si mescola/immedesima nell’opera fino a far sparirne al suo interno, ma piuttosto grazie alla centralità e all’immanenza di un protagonista (Philip Seymour Hoffman) che sembra imprimere al film quella disperazione e quel senso di perdita che sono fulcro dell'opera e della stessa vita del compianto attore statunitense.

7

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