Recensione Still Alice

Una strepitosa Julianne Moore per un film delicato ed emotivo

Recensione Still Alice
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Tutto nel mondo deve seguire delle regole. Spesso sono implicite, non dichiarate, a volte anche rinnegate. Una delle regole del Festival Internazionale del Film di Roma è che almeno un film deve affrontare il difficile tema della malattia. Si preferiscono le narrazioni struggenti, i drammi che ti lasciano con il vuoto mistico all'altezza dello stomaco, ma qualche volta ci si è spinti anche verso altri generi (con alterni risultati). Quest'anno, poi, forse si è un po' esagerato e il tema della malattia te lo ritrovi nascosto nella trama tra una proiezione e l'altra. Ma va bene anche così, l'importante è che ci si trovi davanti a belle storie, dirette con maestria e recitate con cautela. Perché per quanto possa essere un tema dalla facile presa emotiva sugli spettatori, la malattia è anche il più famoso dei coltelli a doppia lama che, se non maneggiati con cura, rischiano di scatenare un polverone. Che cosa ci offre la programmazione di quest'anno? L'Alzheimer che, se di solito viene associato allo stato di vecchiaia, può colpire anche persone più giovani, cambiando completamente la direzione della loro vita. Una tragedia che si muove rapidamente, distruggendo tutto ciò che incontra, lasciando dietro di sé solo il vuoto. Still Alice si muove proprio lungo questo percorso, accompagnando lo spettatore nel delicato processo del... dimenticare se stessi.

Quando meno te lo aspetti

Alice Howland (Julianne Moore) è una famosa professoressa di linguistica: ha una cattedra presso la Columbia University e gira spesso il Paese tenendo convegni sull'argomento. Ama il suo lavoro e ci si dedica con passione, così come con suo marito e i suoi tre figli. La sua vita si potrebbe dire quasi perfetta, fino a quando un giorno, durante un convegno a Los Angeles, nel bel mezzo di un discorso, dimentica una parola e le ci vogliono parecchi minuti per trovare un sinonimo, un aggancio linguistico, che le permetta di andare avanti. Qualche giorno dopo, mentre fa jogging all'interno del campus che conosce da una vita, dimentica la strada e si sente completamente persa. Terrorizzata dall'idea di avere un tumore al cervello, Alice contatta un neurologo e ai sottopone a diversi test. Il medico avanza però una ipotesi ancora più devastante: Alzheimer precoce che, nel suo caso, è addirittura ereditario. A questo punto Alice si ritrova costretta a dirlo a tutta la sua famiglia e iniziare a pensare a come affrontare la cosa. Cosa ne sarà del suo lavoro? Cosa succederà alla sua famiglia? Come vivere i prossimi mesi? Come sistemare tutto prima che sia troppo tardi?

Soli con se stessi

Malattie come l'Alzheimer non colpiscono solo il malato, ma hanno un effetto devastante anche su tutti quelli che lo circondano, a cominciare dalla sua famiglia. Pur rimanendo fisicamente funzionante, il soggetto perde la consapevolezza di tutto quello che riguarda se stesso e il suo mondo, vede sgretolarsi tutte le sue conoscenze, anche le più basilari, senza rendersene conto. È terribile, straziante e incurabile. Richard Glatzer e Wash Westmoreland sono rimasti fin da subito affascinati dal modo in cui la storia veniva raccontata nel libro di Lisa Genova su cui si basa il soggetto del film e il rapporto con la vicenda si è fatto ancora più personale quando Glatzer ha iniziato ad avere problemi di salute, scoprendo poi di essere malato di SLA. Le due malattie sono ovviamente molto diverse tra loro, ma si muovono entrambe in un'ambientazione di impedimento e riduzione di se stessi.
Per rappresentare la situazione di Alice, i due registi decidono di concentrarsi solo sulla loro protagonista, seguendo più il percorso che la malattia la costringe a compiere su se stessa, che le conseguenze che tutto ciò ha sulla sua famiglia. Come spettatori veniamo subito lanciati nel disagio di Alice e come lei ci sentiamo persi, preoccupati, sperduti, per niente pronti a sentirci così fragili prima della vecchiaia. Merito anche di una straordinaria interpretazione di Julianne Moore che, nonostante abbia accanto un cast di grandi nomi come Alec Baldwin, Kristen Stewart (che sembra proprio stia lentamente guarendo da quella strana malattia della monoespressione che ha iniziato ad affliggerla nel periodo Twilight) e Kate Bosworth, surclassa qualsiasi cosa la circondi, prendendo completo possesso della narrazione.

Still Alice Still Alice è un film delicato, introspettivo, solitario. Nonostante il cospicuo numero di personaggi che si alternano sullo schermo, per tutto il tempo si ha la sensazione di trovarsi davanti a un monologo interiore, recitato alla perfezione, e con una fragilità ammirevole, da Julianne Moore. I due registi puntano tutto su di lei, riducendo al minimo le conseguenze che il suo degenero mentale ha sul mondo circostante: se da un lato questo può disturbare chi ha avuto modo di interagire con l’Alzheimer nella propria quotidianità, dall’altro fornisce una prospettiva diversa dal solito alla narrazione, che rende emotivamente più partecipe lo spettatore. Ma, visto il modo in cui tutto viene lasciato nelle mani della protagonista, ci troviamo a chiederci se, forse, il mezzo espressivo migliore per questa sceneggiatura non sarebbe la pièce teatrale.

7

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