Recensione Steve Jobs

Michael Fassbender presta il volto al genio informatico fautore del successo della Apple nell’originale film biografico diretto da Danny Boyle, costruito attorno a una sensazionale sceneggiatura di Aaron Sorkin.

Recensione Steve Jobs
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Cimentarsi con un genere quale il biopic, scandito da convenzioni e stereotipi quasi ineludibili, per sottoporlo a un processo di decostruzione, fino a trasformarlo in un oggetto filmico del tutto diverso (e infinitamente più interessante). Ci era riuscito nel 2007 Todd Haynes, quando in Io non sono qui aveva portato sullo schermo le molteplici identità di Bob Dylan (ma prima ancora in Velvet Goldmine, rilettura della parabola artistica di David Bowie ricalcata sul modello di Quarto potere). Non è ricorso al postmodernismo, invece, Aaron Sorkin, ma piuttosto ad elementi mutuati dal teatro: le unità di tempo, di luogo e di azione, moltiplicate in una struttura tripartita per rievocare vari frammenti della vita di Steve Jobs, popolarissimo e discusso co-fondatore della Apple, in una sorta di "tragedia in tre atti" che, tuttavia, non potrebbe essere più lontana dalla nozione di mero "teatro filmato". Perché il suo Steve Jobs, pellicola scevra dai cliché del genere biografico e del cinema di matrice teatrale, si rivela senza mezzi termini un film maestoso: un'opera di modernità straordinaria, da affiancare in un ideale dittico al precedente capolavoro cinematografico partorito dalla penna di Sorkin, The Social Network.

COSTRUENDO IL FUTURO

Nel 2010, nel magnifico film diretto da David Fincher, Sorkin esplorava infatti un'altra figura chiave del mondo contemporaneo e dell'informatica: Mark Zuckerberg, enfant prodige responsabile di quell'autentica rivoluzione socio-culturale denominata Facebook. Cinque anni dopo, l'artefice di serie televisive come The West Wing e The Newsroom torna a tracciare il ritratto di un individuo in cui l'innegabile genialità e il coraggio di "guardare oltre" convivono, anzi appaiono indistinguibili dalla spregiudicatezza nei rapporti umani e da un profondo senso di solitudine autoinflitta. L'ultima, magistrale sequenza di The Social Network, del resto, ci mostrava uno Zuckerberg ipnotizzato di fronte al PC dopo aver inviato una "richiesta d'amicizia" alla sua ex fidanzata: un eroe in trionfo, ma completamente solo. In parallelo, il nostro primo incontro con Steve Jobs ci porta al cospetto di un uomo di ventinove anni, caratterizzato dall'estrema consapevolezza delle sue potenzialità e da un malcelato disprezzo nei confronti di ogni ostacolo - informatico, umano o di qualunque altra natura - che possa frapporsi fra lui e la sua visione di un futuro ormai a portata di mano. Quel futuro che, in un emblematico incipit, il maestro della fantascienza Arthur C. Clarke prova a descriverci, in un'epoca ancora distante dall'anno della sua ipotizzata "odissea nello spazio".

BIOGRAFIA IN TRE ATTI

E Steve Jobs, nell'interpretazione trascinante ma sempre perfettamente misurata di un impeccabile Michael Fassbender, è proprio questo: un visionario divorato da un'ambizione che non deriva però da un banale desiderio di autoaffermazione, ma dalla volontà di far sì che quel futuro tanto vagheggiato, delineato nei minimi dettagli, sia qui, sia adesso... nella parola "Hello!" pronunciata da un computer. Lo Steve Jobs di Fassbender (e di Sorkin), al di là di qualunque pretesa di biografismo o di fedeltà storica, è un personaggio che in inglese si potrebbe definire larger than life: un mefistofelico Charles Foster Kane ossessionato dalla mania del controllo e prigioniero di una hybris appena mitigata dal pragmatismo e dall'umanità di Joanna Hoffman (una bravissima Kate Winslet), solerte braccio destro e grillo parlante, e dal sotterraneo senso di colpa per le sue manchevolezze di padre. Ed è appunto la relazione irrisolta con la figlia Lisa (Makenzie Moss e Ripley Sobo da bambina, Perla Haney-Jardine da ragazza) uno dei fili conduttori di un percorso narrativo costruito come un meccanismo di "coazione a ripetere" replicato su tre linee temporali: nel 1984, in occasione del lancio del nuovo Apple Macintosh; nel 1988, dopo la rottura con la Apple e in procinto di presentare sul mercato il NeXT Computer; e infine nel 1998, quando Jobs, tornato a capo della Apple, si prepara a ricevere la sua definitiva consacrazione con l'immissione sul mercato dell'iMac.

BOTH SIDES, NOW

Tre momenti analoghi, contraddistinti a livello visivo da tre differenti formati (il 16mm per il 1984, il 35mm per il 1988 e il digitale per il 1998), in cui tuttavia Sorkin ha l'intelligenza di sottrarre agli occhi del pubblico "l'evento" vero e proprio. Ciascuno dei tre atti del film descrive invece la mezz'ora precedente alla comparsa di Steve Jobs sul palcoscenico: il "dietro le quinte", la nevrosi collettiva che offre lo spazio a una serratissima catena di confronti (e di scontri) fra il protagonista e gli altri personaggi, sempre gli stessi, destinati a materializzarsi nel backstage, come fantasmi, per costringere Jobs a fronteggiare il suo passato e a tentare di riconciliarlo con il presente. Un tema a cui alludono anche i versi citati dalla piccola Lisa in una conversazione con suo padre («It's life's illusion I recall / I really don't know life at all»), tratti dalla canzone Both Sides, Now di Joni Mitchell: la coscienza del rimpianto come inesorabile traguardo dell'esperienza umana. E bastano questi ripetuti faccia a faccia, costruiti sugli strepitosi dialoghi di Sorkin, a innervare il film di una tensione formidabile, tenuta sempre viva dalla messa in scena di Danny Boyle: una regia tesissima, priva di effimeri virtuosismi ma capace di conferire allo spazio filmico una dimensione quasi metafisica e, nei punti di climax, di regalare sequenze magistrali (una su tutte, il doppio duetto tra Fassbender e Jeff Daniels sull'incalzante montaggio incrociato di Elliot Graham).

Steve Jobs Senza dubbio il miglior titolo nella carriera di Danny Boyle, Steve Jobs è un film portentoso, ai limiti del capolavoro: l’esempio altissimo di un “cinema di parola” servito da attori eccellenti, che riesce però ad usare il linguaggio cinematografico in maniera sbalorditiva, ricavando il massimo potenziale dalla superba sceneggiatura di Aaron Sorkin per dar vita a un’opera in grado di raccontarci al tempo stesso la parabola di un singolo individuo e il ritratto di un mondo in continua evoluzione.

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