Spencer, la recensione: la fragile Lady D di Kristen Stewart

Il regista cileno scolpisce un biopic a metà tra sogno e metafora, elegante, freddo ma non sempre puntuale nei tempi narrativi.

Spencer, la recensione: la fragile Lady D di Kristen Stewart
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Uno dei film più attesi in concorso al Festival di Venezia 2021, che tutti bramavano di vedere fin da quando le prime immagini erano uscite su Internet (parliamo del trailer di Spencer), mostrandoci una Kristen Stewart incredibilmente somigliante a lei, alla Principessa perduta, a quella Diana Spencer che ben prima della sua tragica morte era diventata già mito.
Pablo Larrain firma un biopic atipico, a metà tra allegoria e cronaca, ci guida dentro tre giorni nella vita di una donna che tutti amavano senza sapere razionalmente perché, in un mondo fatto di regole ed etichette, illuminato da un sole pallido e senza vita.

Spencer è senza ombra di dubbio un film che o piacerà molto o verrà detestato dal pubblico e dalla critica, non vi sono mezze misure, come del resto era con lei, con Diana.
Prima di vedere il film ci siamo chiesti se Kristen Stewart fosse all'altezza di interpretare Lady D e ora è arrivato il momento di scoprire la verità.

Spencer, il racconto di una prigionia fatta di silenzio

La brughiera inglese fuori Norfolk è il palcoscenico perfetto perché la monarchia e la nobiltà inglese possa celebrare se stessa. La Regina dispone e crea tre giorni all'insegna dell'etichetta e della tradizione più rigida, e tutti sono tenuti ad attenervi, a rispettare orari, vestiario e regole.
Tutti ma non lei, non Diana Spencer, non la Principessa più amata di sempre e più detestata dalla Corte che si ricordi.

Sandringham House, la vigilia di Natale del 1991, è stato uno dei momenti più difficili ma anche fondamentali per Diana, e Spencer diretto da Pablo Larrain si pone tra di noi e la sua memoria, la sua storia, per farci capire come e perché.
La fotografia delicata di Claire Mathon conferisce ai 111 minuti di questo dramma personale e assieme universale, perché arcinoto, la dimensione di un sogno a occhi aperti, di un viaggio dentro l'incertezza dell'animo umano.
Spencer è un film che vive di metafore visive prima ancora che narrative, di contrapposizione tra il dentro e il fuori, tra la notte e il giorno, tra il chiuso e l'aperto.
Tutto è dominato da lei, Kristen Stewart, che si muove con fare ora goffo ora autentico, nei panni di una delle donne più famose del XX secolo.
La prigione di Diana è fatta di silenzio e buone maniere, di ampi spazi recintati, di una lussuosa residenza in cui la solitudine è una compagnia fedele e tenace, dove non esiste alcuna possibilità di un rapporto apertamente umano e sincero.

Nessun dubbio che per questo Diana sia impazzita, che quei dieci anni l'abbiano lasciata così attonita, preda di incubi a occhi aperti, di una bulimia che Larrain mostra con occhio clinico e freddo, connessa all'impossibilità di una spontaneità che è peccato e colpa, nella monarchia più antica del mondo.
Affiora, durante la visione, il dubbio che poi diviene certezza, circa l'inevitabilità di un'infelicità che anche serie tv come The Crown ci hanno mostrato, ma non connettendosi così tanto al classismo, alla tematica del singolo schiacciato dalla norma.

Un nemico invisibile

Carlo e Diana sono vicini alla separazione. Lei indossa la collana di perle, la stessa che lui ha regalato all'amante, a Camilla Parker Bowles, che tiene al collo quasi dovesse servirsene per un gesto estremo, come un cappio a cui appendere un'esistenza che odia e che si fa sempre più insopportabile.

Come in Jackie di cinque anni fa (qui la nostra recensione di Jackie), anche in questo Spencer Larrain segue in modo ravvicinato e freddo i passi della sua protagonista, che non ha la ferocia atavica e luttuosa di Natalie Portman, ma l'incedere disperato dell'animale braccato nella sua tana, la vulnerabilità totale di una creatura schiacciata dalla Storia.
Ecco, la Storia, lei è il vero nemico, non la Regina Elisabetta, che fu indicata dal popolino come carnefice sulla tomba fresca della donna che quasi aveva distrutto la monarchia.
Qui in fin dei conti è solo un'altra persona che si è abituata alla schiavitù dei dogmi perché nataci dentro, e neppure Carlo (Jack Farthing, a Venezia anche in The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal) è il villain, solo l'espressione di un credo che cambia d'abito ma non di risolutezza.

Quel credo si chiama Monarchia, ha schiacciato tante donne prima di Diana, come Anna Bolena, che appare come fantasma premonitore a un'altra consorte sfortunata e senza colpa se non quella di essere scomoda, libera e piena di emozioni.
Diana che bambina gioca nei campi, privilegiata figlia ignara della sua sorte di pedina del potere.
Diana che cerca nei figli l'unico rifugio da un'infelicità totale, amplificata dai menù inutilmente ricercati, dagli abiti come catene, dai paparazzi che ne schiavizzano l'esistenza, dai fagiani sterminati in nome della tradizione a colpi di lupara, perché così si è sempre fatto e così sempre si farà.

Un film in bilico tra manierismo e scarsa incisività

Spencer è un'odissea onirica, un biopic concentrato in tre giornate che cerca di farci capire come e perché questa ragazza timida, stravagante, indomabile, non poteva essere ciò che serviva alla corona per entrare senza grandi sforzi nel XXI secolo.

La Stewart si muove con grazia, eppure nonostante l'energia di Larrain, la straordinaria eleganza della regia che valorizza ogni tenda, ogni stanza e persino la nebbia, a volte appare fuori posto, artefatta.
Di base è più impegnata a essere se stessa che a interpretare visceralmente una donna con cui in fondo ha condiviso bulimia e tristezza, la trappola della celebrità.
Sarebbe stato giusto aspettarsi di più da lei, che dopo Seberg inciampa un'altra volta (per saperne di più trovate la nostra recensione di Seberg). Ma, nonostante questo, il vero problema è la prevedibilità della costruzione onirica, dei simboli teoricamente dotati di potenza che perdono invece originalità a mano a mano che si va avanti.

La libertà è un happy meal? Una canzone alla radio? Una corsa tra i prati fermando i cacciatori? Da Pablo Larrain, su un personaggio così maestoso e allo stesso tempo impalpabile nella sua sostanza, era giusto aspettarsi di più, di meglio, se non altro un ritratto meno condizionato dallo stile e più legato alla realtà storica.
Spencer a conti fatti emerge infine come un'opera fin troppo autoreferenziale, vanitosa, perfetta stilisticamente ma non abbastanza viscerale, troppo connessa alla materialità e a dialoghi che di profondo o sorprendente hanno ben poco.
Non che si voglia negare il fascino della sintesi, ma non sempre tale dimensione è accompagnata dall'immediatezza, qui piuttosto l'insieme appare scarno, ripetitivo in più di una parte, troppo impegnato a prendersi sul serio per ambire alla perfezione.

Piacerà a chi adora l'ex diva di Twilight, a chi ama il cinema di Larrain, i suoi campi lunghi e le carrellate infinite, ma è un piccolo campanello d'allarme circa un percorso che qui mostra chiari segni di ridondanza.

Spencer Spencer è un film elegante, possente nel linguaggio e nella dimensione visiva, che si regge fin troppo sulle spalle di una Kristen Stewart che non riesce a convincere a pieno. Coerente nella sua dimensione onirica e simbolica, nel suo mostrarci l'intima paura e la tristezza di una donna incatenata a un mondo fatto di regole asfissianti, fallisce nel fare il salto di qualità, nel diventare qualcosa di più di un'opera autocelebrativa. Permane la sensazione di incompiutezza, mitigata però dalla regia di Larrain, dalla sua capacità di catturare il nostro sguardo.

6.5

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