Recensione Si vis pacem para bellum

Storia d'amore tra una giovane cameriera di ristorante cinese e un buttafuori da discoteca che svolge in segreto l'attività di killer, Si vis pacem para bellum riporta il noir sulle strade di Roma.

Recensione Si vis pacem para bellum
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Se quella che aveva immortalato tramite la macchina da presa nell'ottimo biopic califaniano Non escludo il ritorno fu una Roma spesso notturna e sporca, non è da meno la capitale italiana che fa da sfondo alla circa ora e mezza di visione in cui Stefano Calvagna mette in piedi Si vis pacem para bellum, suo dodicesimo lungometraggio cinematografico.
Dodicesimo se non teniamo in considerazione l'ancora inedito Tonino e l'Un nuovo giorno che, realizzato dopo questo, è però giunto nelle sale prima della vicenda riguardante il solitario Stefano, lavorante come buttafuori in una discoteca, ma che, killer a pagamento per il poco raccomandabile Rico alias Massimo Bonetti e amante del cibo cinese, finisce per innamorarsi della cameriera Lee Ang, cui concede anima e corpo una Francesca Fiume lontana dai ruoli comici ricoperti in Sotto una buona stella e L'abbiamo fatta grossa di Carlo Verdone.
Lo Stefano interpretato dallo stesso regista in una prova da attore più convincente delle sue precedenti e che, convinto che l'unico uomo inoffensivo sia quello morto e deciso a cambiare il proprio futuro portando la ragazza in Cina per vivere insieme a lei una nuova esistenza, scopre anche che il severo padre di lei è coinvolto in loschi giri.

Amore di...sparato!

E, mentre apprendiamo anche che a completare le giornate del protagonista provvedano i momenti in visita alla madre ormai anziana e malata con le fattezze di Lucia Batassa e quelli in palestra affiancato dall'amico Filippo con quelle di Emanuele Cerman, è facile intuire una probabile influenza dal Léon di Luc Besson o, addirittura, dal suo predecessore hongkonghese The killer di John Woo (del resto, gli occhi a mandorla non mancano).
Ma l'aspetto che maggiormente ci interessa va individuato nel fatto che, da sempre indipendente e lontano da qualsiasi forma di finanziamento statale o regionale, l'autore di E guardo il mondo da un oblò e Il peso dell'aria sia stato in questo caso capace di superarsi concretizzando con soli diciassettemila euro di budget a disposizione ed appena dieci giorni di lavorazione un prodotto che ha ben poco da invidiare ad elaborati molto più costosi.
Perché, con qualche cadavere sparso e ritmo narrativo giocato nella giusta maniera grazie anche all'apporto della colonna sonora curata dal Claudio Simonetti di solito al servizio di Dario Argento, la noia non è affatto di casa e la fotografia di Matteo De Angelis svolge il proprio compito in maniera decisamente lodevole.
Man mano che, senza rinunciare all'immancabile ironia calvagnana, il tutto si muove efficacemente tra romanticismo, sesso (rimarrà nella memoria di molti la sequenza ai limiti dell'hard con Giulia Anchisi), violenza e vaghi echi dal personaggio del Monnezza di Tomas Milian (si pensi solo allo scontro con i tre bulli all'interno del ristorante)... fino ad un inaspettato epilogo.

Si vis pacem para bellum Con un titolo preso in prestito da una locuzione latina usata soprattutto per affermare che uno dei mezzi più efficaci al fine di assicurare la pace è quello di essere armati e in grado di difendersi, Si vis pacem para bellum di Stefano Calvagna ricorda nel plot diversi modelli cinematografici appartenenti alla cinematografia internazionale, ma vi si distacca grazie alla capacità di immergere il tutto in territorio malavitoso romano e di lasciar avvertire evidenti influenze da parte dei fatti di cronaca nera nostrani. Elementi tipici dei lavori del regista de L’uomo spezzato, il quale coinvolge pienamente lo spettatore compiendo stavolta il vero e proprio miracolo di portare a compimento in neppure due settimane di lavorazione un elaborato che, concepito utilizzando un budget che sarebbe stato misero addirittura per un cortometraggio, non si discosta molto dai noir italiani prodotti dalle major.

7

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