Recensione Shell

Distintiva la prima prova registiva di Scott Graham

Recensione Shell
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Tra gli applausi generali, a conquistare la trentesima edizione del Torino Film Festival è Shell, lungometraggio di opache tonalità che tematizza una solitudine estremamente violenta nei suoi estenuati silenzi lacerati solo dalle gelide correnti del nord e nel pacato, quasi immobile trascorrere dell’esistenza. Si tratta del primo lungometraggio scritto e diretto da Scott Graham, che al suo interno inserisce ampie memorie sedimentate della propria vita, a partire dalla sua infanzia vissuta nel nord-est della Scozia fino alle reminiscenze della sua carriera artistica. Come ha detto lo stesso Gianni Amelio, infatti, “ha girato un cortometraggio che si chiama Shell e un lungometraggio che si chiama Shell, possiamo solo augurargli di girare anche un mediometraggio che si chiami Shell”. Un motivo in questa sofferta gestazione però c’è, e si vede: film che gode di accentuato spirito fotografico, il premio è meritato e porta con sé il trionfo di aver battuto una nutrita schiera di avversari di tutto rispetto (da Liability a Call girl, da Arthur Newman a Breaking horizons, c’è solo da perdersi nei buonissimi titoli di quest’edizione).

La conchiglia

Shell (Chloe Pirrie) ha diciassette anni, è nel fiore dell’adolescenza e già si scorge la bellezza pronta a sbocciare sul suo viso. Vive isolata nelle Highland scozzesi con il padre Pete (Joseph Mawle), dove gestisce una stazione di servizio nel mezzo del nulla per miglia e miglia. Lunghe e logoranti sono le giornate che Shell vive in monotonia, una uguale all’altra, senza fare altro se non aspettare clienti che forse arriveranno solo l’indomani. Abbandonata dalla madre fin da bambina, il suo unico contatto possibile resta il padre, tuttavia scostante e perlopiù distaccato, estremamente ansioso e con una gelida tristezza calcificata nelle sue ossa. Così Shell è costretta, oltre a vivere nella completa solitudine geografica dove è stata costruita la stazione di servizio, anche a prestare attenzione al padre, spesso preda di acute crisi epilettiche. La solitudine e l’isolamento sono solo saltuariamente infranti dai clienti che fermano alla pompa di benzina, in gran parte tutti volti noti e a loro volta portatori di una solitudine che ben si sposa con le raffiche ventose gelide delle Highlands. Tutti i “clienti” - come li chiamano, in modo quasi distaccato, Shell e Pete - sembrano trascinare un macigno dantesco di isolamento e paura dell’essere soli, tanto Hugh (Michael Smiley), uomo separato di mezz’età che passa dalle Highlands solo per andare a trovare i figli, quanto Adam (Iain de Caestecker), ragazzotto del luogo che tenta di vivere lavorando un po’ alla segheria e un po’ al pub, portano nei propri occhi e nelle parole il vortice della disperazione, l’assenza di contatto che sembra una malattia, e tentano in modo quasi spasmodico e poco reale di abbordare la giovane Shell, unica vera perla in queste terre dimenticate.

Ambivalenza

Come primo lungometraggio non si può negare che Graham abbia dimostrato un certo coraggio. Il ritmo basso ed estenuante di un arco di tempo dilatato e volutamente fatto pesare allo spettatore, con i suoi 90’ percepiti come se fossero almeno 110’, il grande protagonista è piuttosto il paesaggio, una natura selvaggia, tanto stupenda e mozzafiato da osservare di passaggio, quanto perfida e agorafobica da vivere. Se larga parte del film è recitato solo da Shell e dal padre, solo il paesaggio è protagonista del film nella sua interezza, sottolineando il grigiore della vita atona, scuotendo la deprimente condizione di Shell con le correnti nordiche, rovinando il riposo del sonno col gelo della notte. Anche il cielo si apre sovente in squarci di sole e nuvole grigio scuro, una variopinta tavolozza di tonalità scure e violacee che tratteggiano la vita con i colori di sentimenti negativi, di totale distacco da essa. Il dolore silenzioso e insieme furioso si scatena esplicitamente, dalla sequenza (quasi didascalica) di investimento del cervo fino al tragico e insieme apologetico finale. Quello che resta è l’incertezza di essere ancora vivi, quando si è sempre soli. Un’incertezza esplicita fin dal nome della ragazzina, Shell, che è sia un distributore di benzina sia, come dirà lei stessa, il tesoro contenuto nella conchiglia in fondo al mare. Un’ambivalenza abissale e quasi ossimorica, che contrappone il Shell-benzina dell’isolamento nelle Highlands al Shell-ostrica del vuoto grido di libertà. E se è il nome a dare un senso alle cose, se il nome è per eccellenza il gesto biblico del creare, da questi semplici ingredienti si evince l’impasto strutturale e sostanziale del film, che gode di una regia e una scrittura interessanti e attraenti, ma che senza dubbio non è una visione leggera. Senz’altro forte, ma anche volutamente ripetitiva e logorante, non è adatto a tutti i tipi di pubblico. Eppure sarà la trasversalità attraverso più generazioni (dalla giovane Shell, al padre cresciuto, all’anziano Hugh) a raccontare un tema universalmente sentito, la paura dell’essere soli, quasi contro natura per l’essere umano, ma infine Shell è stato accolto da scrosci di applausi da un largo pubblico composito. Un film che ha fatto centro.

Shell Come primo lungometraggio non si può negare che Graham abbia dimostrato un certo coraggio. Il ritmo basso ed estenuante di un arco di tempo dilatato e volutamente fatto pesare allo spettatore, con i suoi 90’ percepiti come se fossero almeno 110’, il grande protagonista è piuttosto il paesaggio, una natura selvaggia, tanto stupenda e mozzafiato da osservare di passaggio, quanto perfida e agorafobica da vivere. Se larga parte del film è recitato solo da Shell e dal padre, solo il paesaggio è protagonista del film nella sua interezza, sottolineando il grigiore della vita atona, scuotendo la deprimente condizione di Shell con le correnti nordiche, rovinando il riposo del sonno col gelo della notte. Anche il cielo si apre sovente in squarci di sole e nuvole grigio scuro, una variopinta tavolozza di tonalità scure e violacee che tratteggiano la vita con i colori di sentimenti negativi, di totale distacco da essa. Il dolore silenzioso e insieme furioso si scatena esplicitamente, dalla sequenza (quasi didascalica) di investimento del cervo fino al tragico e insieme apologetico finale. Quello che resta è l’incertezza di essere ancora vivi, quando si è sempre soli. Un’incertezza esplicita fin dal nome della ragazzina, Shell, che è sia un distributore di benzina sia, come dirà lei stessa, il tesoro contenuto nella conchiglia in fondo al mare. Un’ambivalenza abissale e quasi ossimorica, che contrappone il Shell-benzina dell’isolamento nelle Highlands al Shell-ostrica del vuoto grido di libertà. E se è il nome a dare un senso alle cose, se il nome è per eccellenza il gesto biblico del creare, da questi semplici ingredienti si evince l’impasto strutturale e sostanziale del film, che gode di una regia e una scrittura interessanti e attraenti, ma che senza dubbio non è una visione leggera. Senz’altro forte, ma anche volutamente ripetitiva e logorante, non è adatto a tutti i tipi di pubblico. Eppure sarà la trasversalità attraverso più generazioni (dalla giovane Shell, al padre cresciuto, all’anziano Hugh) a raccontare un tema universalmente sentito, la paura dell’essere soli, quasi contro natura per l’essere umano, ma infine Shell è stato accolto da scrosci di applausi da un largo pubblico composito. Un film che ha fatto centro.

7.5

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