Revenge, la recensione: a piedi nudi nel deserto, fra sangue e critica feroce

Coralie Fargeat dirige Matilda Lutz in un revenge movie tutto al femminile, surreale e pregno di critica verso la società maschilista.

Revenge, la recensione: a piedi nudi nel deserto, fra sangue e critica feroce
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Provate a immaginare l'assordante e assoluto silenzio del deserto africano, magari chiudendo per un attimo gli occhi, per ritrovarvi nel mood di Revenge. Virate tutta la palette colori della vostra mente sull'arancio e le sue sfumature, possibili grazie al sole che sbatte violento sulla sabbia. Un dipinto astratto in cui irrompono all'improvviso rumori di elicottero, fra l'arroganza del motore e le pale che urtano l'aria e il vento.
A bordo del veicolo vi sono il milionario Richard (Kevin Janssens) e la superficiale Jen, di qualche anno più piccola dell'uomo. I due non fanno altro che incarnare tutti i più classici cliché rispetto al riccastro di turno e la ragazzina ammiccante, viziata e costantemente provocatrice, una majorette nel periodo di suo massimo splendore, da divorare con gli occhi.
La destinazione? Una grande villa con piscina costruita nel nulla, il posto ideale (almeno per Richard) per dimenticare lavoro, moglie e figli e tuffarsi in un bollente weekend di sesso e caccia selvaggia.
A raggiungere i due, successivamente, anche gli amici di battuta Stan e Dimitri, subito rapiti dal fisico divino e dagli atteggiamenti di Jen. La ragazza infatti, genuina e incosciente, danza, provoca, stuzzica, in un gioco apparentemente innocuo, senza conseguenze. In realtà questo porta i tre uomini a perdere completamente il senno e a rendersi responsabili di diversi crimini: carnali, fisici, sessuali, morali.

Una donna al comando, dentro e fuori lo schermo

Coralie Fargeat, debuttante registra francese nel cinema che conta, sceglie deliberatamente di girare un rape e revenge movie fuori di testa, surreale e atipico, che più volte mette positivamente in crisi lo spettatore giocando con l'ironia e la passione. E lo fa ben prima che lo scandalo Weinstein cambiasse per sempre il volto di Hollywood e dell'intera industria cinematografica, scrivendo e girando Revenge nei primi mesi del 2017.
Il New York Times e il New Yorker del resto hanno scoperchiato un vaso di Pandora in realtà già noto a molti, che racconta soltanto una parentesi della sottomissione (un termine forte ma talvolta calzante) della donna in una società spesso fallocentrica. La Fargeat affronta questo delicato tema attraverso un'appassionante e onirica storia di caccia e vendetta, durante la quale i predatori si fanno preda e viceversa, in cui nessuno è innocente.
Perché onirica? Perché molte delle sequenze su schermo travalicano le leggi della fisica, della meccanica e del tangibile, toccando la morte e la resurrezione, il coraggio e la paura, l'assurdo e il verosimile, è dunque molto importante affrontare la visione con mente aperta e pronta all'estremo, anche al cattivo gusto e al black humor.
Motore dell'opera è sicuramente Jen, che compie il classico percorso dell'eroe da vittima indifesa e pura a paladina sanguinaria e determinata, capace di condensare nel corpo e nell'anima decenni di discorsi e trattati sul femminismo, andando però oltre la teoria e passando alla pratica con poche linee di dialogo e uno sguardo profondo, tanto da rimanere impresso nella mente dello spettatore anche giorni dopo la visione del film.

Un'italiana dal ventre squarciato

Il carattere cangiante di Jen è affidato a una Matilda Lutz mai così matura e abbagliante, in grado di portare sulle sue apparentemente fragili spalle tutto il peso di un'opera pregna di significato, ma anche capace di divertire i suoi spettatori. In termini di linguaggio, siamo di fronte a un classico revenge movie che non sfigurerebbe affatto in una proiezione di mezzanotte alla Mostra di Venezia - fra le urla festanti di pubblico e critica.
Gran parte delle scene sono intrise di tensione, attesa, sangue, paura, un'ironia tagliente che strizza volutamente l'occhio alle più classiche produzioni di serie Z, soprattutto durante la "caccia" che caratterizza tutta la seconda parte del film - accompagnandoci per mano, a piedi nudi nel deserto, verso un finale labirintico in cui corpi e istinti combattono fino all'ultimo respiro.
Già, corpi e istinti, poiché sono forse loro i veri protagonisti "sotto pelle" di Revenge: la pulsione sessuale dipende da (almeno) due corpi che in qualche modo si attraggono, l'indifferenza (altra grave colpa sotto i riflettori della Fargeat) da un corpo che si allontana, che fa finta di non vedere il contesto, andare a caccia poi non è altro che ricercare altri corpi da possedere, conquistare, come se sparare o avere rapporti fossero azioni pressoché simili, in senso primordiale.
Si finisce così per camminare, letteralmente, sul sangue, ad ammirare i colpevoli della nostra storia ridotti in vermi, ignudi come Madre Natura li ha fatti, senza sovrastrutture sociali come il potere o il denaro, a vedersela con il sesso opposto ad armi pari - per una volta.

Critica e brutalità dunque si incontrano, amalgamati perfettamente insieme da una regia autoriale di gran classe, con inquadrature simmetriche, campi larghi (che mettono l'uomo al pari delle formiche, nella vastità del deserto) e ravvicinati, più un intelligente uso della camera a mano nelle battute finali in grado di portare ogni spettatore accanto ai protagonisti.
Degna di nota anche una grande attenzione ai dettagli e ai silenzi, con dialoghi ridotti all'osso e una narrazione soprattutto fisica, materiale, che catapulta Coralie Fargeat fra i migliori giovani registi francesi del momento.

Revenge Come ci suggerisce il titolo, Revenge, Coralie Fargeat ha scritto e diretto un rape/revenge movie allo stesso tempo classico e surreale, affidando sia l'intrattenimento che la critica sociale al personaggi di Jen, eroina dei nostri travagliati tempi che compie un percorso ben preciso - da ragazzina viziata a paladina epica. La giovane ha corpo e occhi di una Matilda Lutz eccezionale, bellissima e spietata, che mette in riga (non certo senza difficoltà, ovviamente) tre uomini differenti - che incarnano altrettante colpe capitali. Un ottimo mix di divertimento (degno della Sala Grande di Venezia a mezzanotte) e significato, girato con classe, talento, e colorato dalle particolari sfumature del deserto, su cui siamo chiamati a strisciare, a camminare a piedi nudi, guardandoci costantemente le spalle.

7.5

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