Dopo il meritato successo di Dogman, Matteo Garrone torna al cinema con un passion project che sognava di dirigere da sempre. Per farlo si è affidato a volti italiani molto noti e a qualche sua conoscenza di settore, trasportando nuovamente l'universale e immortale Pinocchio di Carlo Collodi al cinema, in un fedele adattamento del racconto che trova però in questa scelta tante delle sue criticità. La visione garroniana di Pinocchio è uno specchio perfetto del libro, pensando soprattutto a un generale senso di povertà che permea nel profondo l'intera opera e la accosta anche all'insuperabile lavoro di Luigi Comencini.
La storia la conosciamo tutti ed è chiaro come Garrone sia insieme a Fellini o Benigni uno dei massimi estimatori del lavoro di Collodi, che rispetta e celebra in ogni sequenza pur cercando delle sensibilità stilistiche a lui più vicine. Ne viene fuori un film ossequioso e completamente svuotato dell'effetto novità, un Pinocchio cinematografico che veste con reverenza ogni aspetto tematico del racconto originale, privandosi nel farlo di coraggio e virtuosismo pur essendo curiosamente un buon adattamento del racconto.
Un lavoro di giardinaggio
Pur essendo un film dall'estetica riccamente decadente, pieno di suggestioni e inquadrature di trascinante bellezza, ci si allungherebbe il naso se non ammettessimo che il Pinocchio di Garrone ci ha in parte molto delusi. Nell'operazione è rintracciabile tutto l'amore dell'autore per il mondo fiabesco dell'ottocento, che a differenza de Il Racconto dei Racconti declina in chiave colloidiana con vibrazioni molto più freak e grottesche, confezionando un'opera affascinante ma respingente, persino "fuori target" (ci sono scelte che non sappiamo quanto potranno piacere ai più piccoli). La storia di formazione del burattino che voleva diventare bambino vero è poi tra le più famose e amate del mondo, il che la rende anche una delle più note, riproposta più e più volte senza troppi cambiamenti nel corso di un intero secolo.
Essendo allora Pinocchio una delle basi artistiche del talento "fiabesco" di Garrone, il cineasta romano non voleva probabilmente sbagliare nulla, inoculando all'interno di quello che lui stesso ha descritto come "un lavoro di giardinaggio" (di precisione) soltanto le sue vibrazioni cinematografiche, cesellando dunque a dovere la sola forma del racconto, non il suo contenuto.
Ci ritroviamo dunque all'interno di un viaggio fin troppo conosciuto, di cui si anticipa ogni mossa e che non lascia davvero spazio all'immaginazione ma soltanto alla prossima trovata. La curiosità è tutta rintracciabile nel modo in cui l'autore ha scelto di dipingere un paesaggio, di curare un'inquadratura, di illuminare una scena (sempre con la meravigliosa fotografia di Nikolaj Bruel) o revisionare il look dei tanti e strambi personaggi che popolano le pagine del libro originale.
È un prodotto che vive anche di una sospensione incantata grazie alle musiche sognanti di Dario Marinelli (Paddington 2, Bumblebee), forse solo riproposte in maniera un po' eccessiva lungo tutto il tragitto filmico, mentre il lavoro di effetti speciali svolto dalla One of Us in collaborazione con Chromatica e supervisionato da Massimo Cipollina è di alto livello e di respiro internazionale, specie all'interno di una produzione italiana.
Fuori e dentro la favola
Il risultato è un Pinocchio interessante ma disarmonico, perché funzionale come film di Garrone ma a tratti persino soporifero e ridondante come diretta trasposizione del racconto. Funziona soprattutto all'inizio, quando l'opera si concentra sul personaggio di Geppetto, interpretato da un eccezionale Roberto Benigni capace di dipingere con miracolosa miseria, emozione e tatto la povertà di questo falegname toscano. Il regista e l'attore lo pensano più vecchio e trasandato del previsto, anche se ugualmente dignitoso e archetipo di figura paterna, come dice Benigni "il padre per eccellenza insieme a Giuseppe", con cui per altro condivide anche la stesa professione.
Erano sette anni che il regista e interprete de La vita è bella mancava sul grande schermo, e in Pinocchio ci ricorda placidamente lo spessore della sua bravura. Recita con gli occhi e trasmette ogni frammento dell'anima di Geppetto, Benigni, tanto che risulta quasi insostenibile doverlo salutare dopo appena venti minuti e ritrovarlo per breve tempo solo alla fine.
Viene proprio da pensare che sarebbe stato meglio concentrarsi su di una libera rilettura del libro dal punto di vista di Geppetto, anziché riproporre ancora una volta lo stesso identico tracciato narrativo di sempre.
Sono poi molte le figure di passaggio che il Pinocchio di Federico Ielapi (purtroppo spesso poco incisivo, troppo acerbo come personaggio) incontra lungo il suo percorso, dal burbero ma generoso Mangiafuoco (un Gigi Proietti tra Rasputin e Gandalf) ai disonesti Gatto e Volpe (interpretati da Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, dove il primo è l'eco del secondo), così come la Fata Turchina, la Lumaca, il discolo Lucignolo o il Grillo Parlante.
È tutto il linea con il racconto di Collodi, solo pensato per essere in tutto e per tutto di matrice visiva garroniana, spesso strambo e fuori luogo, altre volte invece più crudo o inquietante del previsto (vedi la trasformazione in asino o il tonno di Maurizio Lombardi che si fa digerire a fatica, dalla balena come dal pubblico). Il trucco e gli effetti prostetici del due volte Premio Oscar Mark Coulier (The Grand Budapest Hotel, The Iron Lady) sono poi assolutamente in linea con questo mix di realismo magico e misera rovina che permea l'intero progetto, un'operazione interessante dal punto di vista artistico ma alla fine dei conti non così memorabile.
Freak, decadente, grottesco e parzialmente fuori target: il Pinocchio di Matteo Garrone è la più respingente e autoriale delle trasposizioni dell'opera di Collodi. È in tutto e per tutto una favola di matrice garroniana pur restando in ogni singolo passaggio il Pinocchio che tutti noi conosciamo, che è poi il limite stesso del film, quello che rende il passion project del regista capitolino riuscito soprattutto dal punto di vista estetico ma narrativamente e concettualmente poco virtuoso, a “impatto zero” dal punto di vista emotivo. Roberto Benigni è un Geppetto di miracolosa miseria, delicato e toccante, mentre il "figliolo" di legno interpretato da Federico Ielapi è molto meno incisivo e macchiettistico. Il parterre di personaggi secondari è più o meno funzionale alle esigenze del cineasta e al suo stile fiabesco tra realismo magico e rovinosa povertà, che bene si adatta in fondo all'anima stessa di Pinocchio. Se solo non fosse una delle storia più famose, riproposte e abusate al mondo.