Recensione Pieta

Kim Ki-Duk vince Venezia 69 con un dramma sull'usura

Recensione Pieta
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Il titolo del film non è sbagliato, si scrive proprio così, senza l'accento sulla "a" finale, e, curiosamente, tradotto in italiano significa - come era facilmente intuibile - "pietà".
In questo caso, però, più che al sostantivo definito nei dizionari come il sentimento che induce l'uomo ad amare e rispettare il prossimo, si fa riferimento allo stile artistico delle sculture o dei dipinti che raffigurano una addolorata Vergine Maria impegnata a cullare il corpo senza vita di Gesù.
Una addolorata Vergine Maria le cui rivelate emozioni non rappresentano altro che i dolori della perdita che innumerevoli esseri umani sperimentano nel corso della vita e che sono universalmente identificabili nel progredire dei secoli.
Una tematica ripresa, tra gli altri, da maestri del calibro di Michelangelo e Van Gogh e che, nel periodo storico del XXI secolo, in cui la forma d'arte maggiormente diffusa non s'identifica più nelle immagini immobili dei disegni o delle statue, viene riletta a suo modo dal prolifico cineasta coreano classe 1960 Kim Ki-duk, osannatissimo autore di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003), La samaritana (2004) e Ferro 3-La casa vuota (2004).

Prendi i soldi e spacca

Circa 104 minuti di visione al cui centro troviamo Lee Jung-jin nei panni di uno spietato individuo che, ingaggiato dagli usurai, ne riscuote i crediti minacciando e storpiando i debitori.
Uno spietato individuo del tutto privo di famiglia e che, con nulla da perdere, vive, quindi, senza tenere in nessuna considerazione il dolore che provoca a moltissime persone. Fino al giorno in cui gli si presenta una donna che, con le fattezze di Cho Min-soo, sostiene di essere la madre che lo abbandonò.

Donna che, in un primo momento, non esita a respingere con freddezza, per poi arrivare progressivamente ad accettarla e a decidere di abbandonare il suo crudele lavoro al fine di condurre una vita normale. Se non accadesse che, all'improvviso, viene rapita e l'uomo, pensando che il colpevole di quanto accaduto sia qualcuno a cui ha fatto del male, cerca di rintracciare tutti coloro che aveva tormentato. Ma, quando trova il colpevole, scopre terribili segreti che sarebbe stato meglio fossero rimasti tali.

Rimetti a noi i nostri debiti...

E apre immediatamente all'insegna della violenza l'operazione, che alterna, comunque, nella giusta maniera, i momenti in cui non viene mostrato nulla di esplicito a quelli volti a tirare in ballo perfino frattaglie.
Perché, chi era abituato ai tempi di narrazione dilatati e ai silenzi fortemente autoriali dei precedenti lavori del regista, trova in questo caso davanti ai propri occhi un crudo spettacolo di celluloide del tutto diverso.
Un crudo spettacolo destinato a dimostrare in che modo il denaro finisca per essere la causa di tanti eventi negativi che accadono nella società del XXI secolo, ma filtrato attraverso un look non molto distante da quello di un horror di taglio realistico.

Del resto, mentre i lenti ritmi di narrazione scandiscono l'insieme, è una cupa e grigia atmosfera a dominare quello che, girato quasi del tutto in interni, si basa su un plot piuttosto folle, proprio come l'ottima coppia di protagonisti.
Una storia i cui emarginati personaggi e le cui assurde situazioni non faticano a richiamare alla memoria un certo, grottesco cinema underground degli anni Settanta e Ottanta; comprendente, tra gli altri, i lungometraggi dell'accoppiata Andy Warhol/Paul Morrisey e, se vogliamo, anche quelli del Frank Henenlotter autore della trilogia Basket case.
Quindi, con un tutt'altro che banale epilogo, un Kim Ki-duk tutto nuovo, ma pur sempre coinvolgente e lodevole dal punto di vista tecnico, che, sinceramente, speriamo continui su questa strada; perché potrebbe dare molto alla celluloide di genere come ha già fatto con quella maggiormente apprezzata dalla critica meno propensa all'intrattenimento.

Pieta “Il denaro mette inevitabilmente alla prova chi vive in una società capitalistica dove tutti sono convinti che esso possa risolvere ogni cosa. Il denaro è spesso causa di quanto accade ai giorni nostri. In questo film, due persone che provocano e subiscono dolore per via del denaro e che, molto difficilmente, si sarebbero potuti incontrare, si conoscono e diventano una famiglia. Grazie a questa famiglia, ci accorgiamo che siamo complici di tutto quello che accade. Il denaro farà domande tristi fino a quando tutti quelli che vivono in questa epoca moriranno. Finiremo per diventare denaro agli occhi degli altri, schiacciati sull’asfalto. Piango ancora rivolto al cielo con scarsa fede. Dio, abbi pietà di noi”. Così, il coreano Kim Ki-duk sintetizza il lungometraggio che gli ha permesso di aggiudicarsi il Leone d’oro presso la sessantanovesima Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Una vicenda di usura cruda, violenta e carica di disperazione, in realtà molto più vicina ad un certo cinema di genere e, addirittura, trash (ma per quanto riguarda le situazioni descritte), che ai suoi precedenti lavori, che fecero la gioia dei seguaci della cosiddetta “celluloide d’autore”. Non una pellicola eccezionale, ma ben confezionata e capace di funzionare a dovere anche ai fini della riflessione.

7

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