Recensione Pelé

I fratelli Jeff e Mike Zimbalist raccontano l'incredibile storia del campione dei campioni, l'artista della ginga che si è fatto strada dai bassifondi brasiliani alla cima del mondo: Pelè.

Recensione Pelé
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C'è un atroce quesito che affligge il mondo calcistico e popolare da anni: è meglio Maradona o Pelé? Se lo chiedete ai napoletani, che all'argentino hanno votato cuore e anima, la risposta è scontata, ma non pensiate che differisca da quella che è la stessa scelta compiuta da mezzo mondo. L'altra metà, invece, propende per il brasiliano, per l'eroe della ginga, per la storia di un uomo rimasto puro e che non si è piegato al giogo della notorietà, del successo. Al di là di ogni bivio della fede, di ogni preferenza, però, c'è la storia, c'è la verità, c'è la realtà dei fatti, quella che vede Pelé attraversare un'epoca nettamente diversa da quella che fu di Maradona, e giungere alla gloria in condizioni completamente distanti da quelle che furono dell'estroso argentino. A raccontarle ci hanno pensato i fratelli Zimbalist, con un biopic interamente dedicato a Pelé.
Pelé è la storia di un ragazzino, un artista del pallone cresciuto nei piccoli borghi del Brasile, tra povertà e disgrazia, miseria e libertà, la libertà di poter dare a calci una palla costruita appallottolando dei calzini umidicci o qualsiasi cosa che si prestasse a rimbalzare ed essere lanciata in aria. Un ragazzino la cui infanzia è segnata dalla volontà della madre, che lo vorrebbe diligente studente, e dal suo desiderio di seguire le orme del padre, regalandogli il più grande dono di sempre: vincere la Coppa Rimet con il Brasile.

O Rei

La narrazione che però viene offerta dai fratelli Zimbalist è tremendamente schiava di scelte incomprensibili, che spingono il biopic verso una realizzazione quasi fumettistica, una riproposizione della realtà in chiave troppo fantasiosa, raccontata come non si dovrebbe fare. Espedienti che non sono propri di un film sul calcio, che comunque non resta di facile realizzazione: tutte le precedenti iterazioni non le ricordiamo per estro né per fantasia, dalla trilogia di Goal! fino ai tentativi di Emir Kusturica con Maradona, con il solo film su Zinedine Zidane, un documentario su una sua intera partita filmata da più di venti telecamere, che si era distinto per inventiva e per novità. Pelé non fa nulla per cercare di essere diverso, per emergere: la parabola del giovane calciatore viene meno e viene sostituita da un susseguirsi di vicende raccontate al rallenty e da una filippica della Ginga, lo stile di gioco spregiudicato che rese celebre il Brasile nel 1958, quando vinse il suo primo Mondiale. Gli espedienti visivi per rendere le partite, le sfide con le altre nazionali, sono tutte poco concrete, poco credibili, accostate in maniera posticcia e raccontate con poco pathos. Tra le più incomprensibili delle scelte ritroviamo anche quella di far parlare tutti i protagonisti con un inglese che tende al portoghese, mettendo in bocca ai giovani brasiliani un idioma che non è assolutamente nelle loro corde. La scelta, chiaramente, appartiene alla versione originale visionata nel corso dell'anteprima per la stampa: resta da vedere in che modo verrà rielaborata la traccia audio per la nostra distribuzione.

Pelé Pelé resta comunque una storia che si può godere, ma che in ogni caso resta disponibile anche da leggere, perché appartiene, per l'appunto, alla storia. I fratelli Zimbalist la rendono soltanto più popolare, più accessibile grazie al grande schermo, ma senza alcun tipo di effetto speciale che possa impreziosire quella che è l'offerta cinematografica. Anzi, sembra quasi che l'unico aspetto realmente valido di tale vicenda sia la promessa fatta del giovane Pelé al proprio padre, che regala un senso sentimentale a tutta la vicenda, rimpinguato anche dal cameo del vero calciatore brasiliano che sorride al passaggio del giovane scanzonato in preparazione per la Rimet. Per il resto, però, Pelé non aveva nulla al rallenty, anzi: aveva nella velocità la sua forza.

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