Recensione Pays barbare

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi dirigono un documentario significativo e rigoroso sul colonialismo italiano

Recensione Pays barbare
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Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi non sono esattamente due autori “facili”: documentaristi dello zoccolo più duro, di quelli che puntano dritti a un obiettivo di ricerca e si propongono di raggiungerlo senza curarsi di quali modalità possano compiacere lo spettatore. Perciò spesso le loro creature, Pays barbare su tutte, non sono immediate da digerire. Anzi, diciamo senza mezzi termini che sono per pochi palati. E se quest’anno ha visto alcuni importanti passi verso una consacrazione del documentario anche in direzione mainstream, bisogna considerare che passano anni luce di differenza tra la tipologia documentaristica di Trespassing Bergman o di un Michael Moore e il lavoro Gianikian/Ricci Lucchi, che si qualifica come un vero e proprio lavoro di ricerca “amanuense”, come un’esposizione ad un congresso per specialisti di una serie di diapositive finemente analizzate, punto per punto.

Barbare

Gianikian e Ricci Lucchi hanno scavato a lungo in materiali storici e filmati d’archivio, recuperando testimonianze inedite dell’impresa italiana in Etiopia nel 1936, dell’istituzione dell’Abissinia, dei successivi avvenimenti. Tutto il documentario muove attraverso questi filmati dell’epoca, raramente con uno speaker in voce off. L’inizio è straniante, quasi estenuante: è singolare non solo la scelta di partire dall’ultimo degli eventi, ossia i corpi di Mussolini e di altri gerarchi fascisti in piazzale Loreto, il 29 aprile 1945, ma soprattutto l’esposizione dei materiali: tutto muto, il filmato d’epoca rovinato scorre lentamente, fotogramma per fotogramma, lasciando allo spettatore il tempo e la possibilità di ispezionarne i dettagli, di scorgere i punti di interesse che spesso sfuggono, le sottili sfumature. Ma soprattutto questa scelta deriva dal lavoro artigianale compiuto a mano dai due documentaristi: «Frughiamo tra i fotogrammi del colonialismo, studiandoli con una lente e trascrivendo le didascalie», è quanto dicono i registi, «si possono notare [...] i segni di chi aveva posseduto i film, le parti sulle quali più volte era ritornato».

La barbarie paga

Il registro del documentario prosegue pressoché invariato, nonostante alcune scritte e didascalie. La struttura circolare, la scelta di partire dall’emblema della caduta del regime per poi indagare la colonizzazione etiope, pare congeniale ai richiami storici dei quali avverte minacciosamente il titolo stesso: “la barbarie paga”. Le inquadrature storiche sugli etiopi e di come gli italiani interagivano con loro vengono fatte sgocciolare in uno stillicidio estenuante, le storture dell’ideologia e la barbarie del colonizzatore viene denunciata (paradossalmente) attraverso i loro stessi occhi, i loro stessi mezzi con cui hanno catturato le immagini.

Emerge il lato propagandistico più vile e indegno, in cui un soldato fascista insapona la testa di una donna etiope a petto nudo, tentando di proporre il popolo italiano come portatore di civiltà presso una popolazione barbarica: «Per questo paese incivile e barbaro l’ora della civiltà è ormai scoccata», recita una scritta da questi materiali d’archivio. E’ così che l’immagine diventa davvero pericolosa, giustapponendo didascalie come “barbaro” o “primitivo” alle inquadrature sugli etiopi. Il lavoro Gianikian-Ricci Lucchi è una profonda ricerca accademica, a metà tra l’antropologia e lo scavo archeologico. Le immagini vengono smantellate e private del loro inganno allucinatorio (il “cinema” in senso lato), distrutte ed esplorate come le prove di un reato.

Pays barbare Documentario di difficile fruizione, non è una visione per un giorno qualsiasi ed è raccomandato ad un pubblico di specialisti. Il problema di questo documentario, che sembra più un resoconto accurato di materiale d’epoca, è rinunciare a qualsiasi modalità espressiva in grado di veicolare lo spettatore attraverso i materiali, di non allontanarlo dall’interesse a un’opera che, per la sua forma, è adatta a ben pochi. Così si rischia di disperdere un messaggio importante e di rendere Pays barbare un materiale visivo da relegare ai soli allestimenti museali, ed è un peccato.

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