Recensione Paulette

Da pasticcera a pusher: la bizzarra parabola di un'insospettabile vecchina

Recensione Paulette
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Esce il 6 giugno in Italia la commedia di Jérôme Enrico che, debuttante in Francia lo scorso gennaio, ha chiamato nelle sale oltralpe più di un milione di spettatori. Il film s’inscrive nella lunga (a tratti felice a tratti un po’ meno) scia del cinema francese della “commedia di formazione” che muove dai luoghi comuni dei francesi autoctoni e xenofobi, refrattari al rapido cambiamento dei panorami, al cosmopolitismo crescente, e sempre più provati da una esasperante crisi economica. Fil-rouge di questa sfilata di commedie che vedono (quasi) sempre bianchi e neri spalla a spalla (oppure asiatici, arabi, mediorientali, e via dicendo) sono, appunto, un’appariscente xenofobia, spesso accompagnata dalle disastrose condizioni economiche, in cui la necessità di sbarcare il lunario devasta i paesaggi francesi, popolandoli di cattiveria e malumore. Ne sono esempi il deludente Troppo amici e il successo Quasi amici, ma anche Paris-Manhattan, lo spassosissimo De l’huile sur le feu (il cui titolo internazionale Wok the Kasbah è semplicemente geniale) e il recente Elle s’en va (presentato all’ultima Berlinale). Paulette s’inscrive a pieno regime in questo filone, ma lo connota di uno spessore nuovo, di una vivacità elettrizzante e di un’ottima confezione tecnica.

Quando diciamo La donna cannone, stiamo parafrasando De Gregori ma non a caso: il film racconta la parabola con cui Paulette finirà per diventare famosa come Nonna Spinello. Acida ultrasessantenne, pasticcera un tempo, ora vedova e senza attività dopo la morte del marito per alcolismo, Paulette passa il suo tempo a bofonchiare ad alta voce, a criticare tutti, a sbraitare offese in faccia ai neri e agli asiatici, e agli extracomunitari in generale. Vive in un “casermone” alla periferia di Parigi, un enorme palazzone squadrato, sporco e diroccato dove l’ascensore funziona poco e male, le luci vanno a intermittenza e le pareti lasciano sentire tutto: è il “blocco Victor Hugo”, un nome che è tutto un programma, considerando che si fregia della memoria di uno degli scrittori e pensatori più rappresentativi per la cultura francese, emblema del Romanticismo d’oltralpe e attivista per i diritti umani. Ben lontana da questo modello, Paulette si trascina per le strade sputando velenose imprecazioni su chiunque, irritata dagli extracomunitari che stanno conquistando la sua città e con l’acqua alla gola con soli seicento euro mensili di pensione. Un giorno tutto cambia: disperazione, astuzia e casualità sono gli ingredienti fondamentali con cui Paulette entra nel mercato della droga. Anziana e insospettabile, con un cognato (nero) poliziotto, Paulette sembra essere lo spacciatore perfetto e fa carriera velocemente, per poi coniugare lo spaccio a ciò che sa fare meglio: la pasticceria. Ma non puoi pretendere di scalare la classifica degli spacciatori dei sobborghi parigini senza farti notare...

La commedia assume da subito toni esagerati, che potrebbero sembrare quelli di una parodia, degli eccessi di una commedia popolare. Eppure queste caricature, grottesche e decadenti, funzionano molto bene. Non solo perché fanno ridere il pubblico (e molto), ma soprattutto perché il film si maschera con un appariscente velo di superficialità per dimostrare una significativa consistenza sotto le sue pieghe, capace di muoversi nel delicato momento in cui la Francia, come tutta l’Europa, è a un crocevia tra una società con le sue piaghe, un’economia in tracollo e un cosmopolitismo da rieducare. I decadenti e diroccati palazzoni di periferia popolati da piccoli spacciatori e individui perennemente seccati e isolati, simili a zombie più che ad umani, sembrano riecheggiare il quartiere di Alex di Arancia Meccanica. Ma non siamo più negli anni Sessanta: Paulette sente, come tutti, il fascino e l’agguato dei numerosi sguardi della multimedialità e della moltiplicazione degli schermi. Per un film in cui la vista è il senso primario, con cui africani e asiatici sono rapidamente congedati e declassati, il regista molto abilmente cavalca la scia di questo regime visivo. L’occhio è prima di tutto distanza tra chi osserva e ciò che è osservato, e questo intelligente film lo evidenzia nelle sue interessanti e al contempo spassose scene: quando Paulette spia con un binocolo, quando davanti al dipinto sulla parete piazza il nuovo LCD a sessanta pollici in 3D, quando ancora le fotografie della sua giovinezza risvegliano dolori sopiti.

Paulette Un film che è piacevolissima commedia, divertente e dalla battuta intrigante, dalle gag irriverenti ma anche da un succo di concretezza che farà pizzicare un po’ d’amaro la lingua dello spettatore. La disperazione e le difficoltà sono reali e il film è abilissimo nel costruire un intricato labirinto sotterraneo di rimandi, interpretazioni e punti di vista sull'attuale quadro nazionale francese. E la verità è che solo mettendosi alla prova, senza arrendersi, e stringendo qualche mano in più anziché coprendosi dietro la finestra, si può rompere il ghiaccio e le distanze. E donare di nuovo un senso alla vita.

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