Paradise Beach, la recensione del film originale Netflix

Il membro di una banda criminale, uscito di galera dopo 15 anni, raggiunge in Thailandia gli ex compagni per riscuotere la sua parte di bottino.

Paradise Beach, la recensione del film originale Netflix
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Luoghi esotici, paradisi fiscali, ancore di salvezza per uomini in fuga da un passato criminale: molto spesso gli angoli più remoti del pianeta, vere e proprie oasi dove con un budget limitato si possono realizzare sogni e ambizioni, fanno da sfondo a spy-thriller in cui i villain di turno si nascondono da occhi indiscreti e conducono una quieta latitanza nel lusso. E Phuket, provincia meridionale della Thailandia, è il posto prescelto dai protagonisti di questo film francese, giunto in esclusiva come originale nel catalogo Netflix, diretto da Xavier Durringer, regista attivo prevalentemente in ambito televisivo che torna al cinema (in patria ha visto anche la luce delle sale) a otto anni di distanza da La conquete (2011), film biografico sull'ex presidente francese Sarkozy.

La storia inizia nel passato, quando un gruppo di criminali di origini arabe rapina una banca e nella susseguente sparatoria con la polizia abbandona ferito, sul ciglio della strada, uno dei suoi componenti, Medhi. Questi sconta quindici anni di carcere senza tradire i suoi compagni e, uscito di galera, prende il primo volo per Phuket dove gli altri criminali se la stanno spassando da quel giorno con l'ingente somma rubata. Medhi intende reclamare la parte del gruzzolo che gli spetta ma gli ex soci, nonostante stiano bene economicamente, non hanno una quantità di denaro sufficiente, spesa per aprire attività in vari quartieri della città. Dopo un periodo di attesa Medhi, uomo che ha fatto della violenza il proprio credo di vita, decide di passare dall'azione ai fatti, potendo contare sull'aiuto dell'amato fratello, anch'esso uno dei membri della banda di un tempo.

Niente da salvare

Tagliamo subito la testa al toro dicendo che Paradise Beach è un film mediocre e di cui nessuno sentiva la mancanza, ennesimo titolo riempitivo che va ad affollare la lista di film presenti sulla piattaforma di streaming senza meriti artistici di sorta.
Dopo il breve prologo avente luogo nel passato, la visione è totalmente ambientata nella città asiatica ma il fascino indigeno non viene mai colto dalla macchina da presa, sempre intenta a stare "appiccicata" al suo protagonista per ricordarsi di offrire una messa in scena degna di nota.
Demerito questo da condividere con l'acerba sceneggiatura, volutamente incentrata su un assunto di cruda e cieca violenza: se è vero che i personaggi, immigrati cresciuti per le strade parigine, non conoscono altro modo per vivere se non quello di delinquere, è oltremodo caricaturale l'approccio con il quale si pongono nei confronti del mondo esterno, più da bestie che da uomini.

Difficile, se non impossibile, entrare in sintonia con figure così estreme e marcate e la generale assenza di (anti)eroi o anime pie risulta ben presto stancante, tra brutali sparatorie, crudeli esecuzioni e improvvisati sequestri realizzati con una superficialità tecnica e stilistica improponibile (si prenda ad esempio l'inutile rallenty in una delle rese dei conti finali).
I momenti più "leggeri" suscitano altrettanto imbarazzo, tra feste in yacht danzereccie con selfie d'ordinanza e ripetute visite ai night club locali, e qualche breve accenno sociale sulla povertà autoctona e sulla situazione della donna in tal contesto maschilista risultano assolutamente inutili ai fini del racconto.
Paradise Beach sbaglia tutto quello che poteva sbagliare e spreca anche un interprete di razza come Sami Bouajila, attore di origini tunisine che nel nuovo millennio ha interpretato ruoli di peso in polar d'alta scuola, qui vittima di un alter-ego monotematico e privo di emozioni e senso logico.

Paradise Beach Un film volgarmente gratuito nella sua idea di fondo, con i personaggi al centro del racconto che conoscono solo le vie della violenza e non esitano ad applicarla nei modi più subdoli, a cominciare proprio dal protagonista, uscito dal carcere dopo quindici anni e pronto a prendersi la sua parte del bottino dagli altri componenti della vecchia banda, ora ricchi uomini d'affari in Thailandia. Paradise Beach tenta le vie del pulp più bieco e insensato senza possederne modi e mezzi, con la presunta ferocia che non trova mai adeguata resa nelle scialbe scene d'azione e uno scavo introspettivo pressoché nullo, ulteriormente inclinato da un colpo di scena finale poco credibile. Novanta minuti di visione tra feste in yacht, night club, turbolente cene e poi ancora parolacce, sparatorie e inaspettati tradimenti: il regista Xavier Durringer, anche co-autore della sceneggiatura, tenta di procedere su un insensato accumulo di "cinema nero" ma il risultato è un calderone di eventi casuali difficile da digerire per chiunque.

4

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