Meg, fresca di divorzio dal ricco marito, si trasferisce con la figlia undicenne Sarah in un una lussuosa nuova casa nell'Upper West Side di Manhattan. La nuova dimora a più piani ha anche la particolarità di avere al suo interno una safe room, stanza costruita in acciaio e pensata come luogo di rifugio in caso di intrusione da parte di sconosciuti, dotata di videocamere di sorveglianza e linea telefonica di emergenza, quest'ultima tuttavia ancora da attivare.
Sfortuna vuole che proprio la prima notte trascorsa dalle nuove inquiline coincida con l'infrazione da parte di tre rapinatori, i quali credono che l'abitazione sia ancora in vendita e disabitata, alla ricerca di un'ingente somma di denaro. Ed è a questo punto che Meg e Sarah iniziano un estenuante gioco del gatto e del topo con gli inaspettati intrusi...
Prigione d'acciaio
Tre anni dopo il successo, di critica e pubblico, di Fight Club (1999) David Fincher porta nelle sale un thriller di raffinata fattura che eleva il filone home invasion a picchi insperati, riuscendo a rendere l'unica ambientazione luogo vibrante e perfetto per la tensiva partita a distanza giocata tra le inquiline e il gruppo di rapinatori. Con una raffinata gestione delle inquadrature e un innovativo utilizzo degli effetti speciali atti a creare un senso di continuità tra i vari piani della casa, con sequenze che simulano una reale connessione degli eventi che oppongono le potenziali vittime agli intrusi, il regista americano dà vita ad una partita a scacchi via via sempre più incerta e carica di suspense, amalgamando il contesto di genere ad una lettura più ampia capace di indagare diverse tematiche. Dal senso di sicurezza di una Nazione in cui niente è ormai più sicuro, ben testimoniato dai titoli di testa durante i quali scorrono le apparentemente rassicuranti immagini dello skyline newyorkese, fino ai pericoli che questi inizia a rappresentare, seppur in maniera involontaria, nei confronti delle recluse protagoniste, Panic Room si offre come monito all'eccessivo uso delle tecnologie e alla tracotanza di certe politiche isolazioniste che rischiano di farsi del male da sole nella propria chiusura.
Allo stesso modo anche il femminismo e la malattia, con la piccola Sarah malata di diabete, trovano vie interpretative nelle due ore di visione in cui la figura della donna, sia madre che figlia, batte per astuzia e scaltrezza gli assalitori maschili, anche questi figli di una caratterizzazione multipla che vira intelligentemente dal bianco al nero per creare ulteriori spunti morali ai fini della vicenda. Con citazioni che guardano sia al mondo filmico, come nell'utilizzo del codice morse imparato da Titanic (1997), che a quello letterario riferito ad Edgar Allan Poe, l'operazione convince e avvince sia dal punto di vista stilistico che da quello attoriale, con una giovanissima Kristen Stewart ad accompagnare un'intensa e credibile Jodie Foster in questa serrata resa dei conti tra il dentro e il fuori.