Pain Hustlers Recensione: Chris Evans troppo sopra le righe su Netflix

Disponibile su Netflix, Pain Hustlers è l'ultimo dei film-denuncia sull'industria farmaceutica, ma qualcosa non funziona.

Pain Hustlers Recensione: Chris Evans troppo sopra le righe su Netflix
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"È fissata con Robin Hood in questo periodo; crede che noi siamo i ricchi". C'è un significato profondo, un monito ignorato, una premonizione celata in un gesto così paradossalmente semplice e naturale come quello di regalare una coperta, simbolo di una ricchezza di cui ci si vuole disfare, verso chi - come Liza Drake - la brama ardentemente. Tra le trame di quel plaid si nasconde infatti tutto il senso di un film come Pain Hustlers, ultimo tassello di una galleria in costante aggiornamento su un tema quanto mai contemporaneo come quello dell'arricchimento poco etico delle case farmaceutiche.

Diretto da David Yates (già regista degli ultimi Harry Potter e della trilogia di Animali Fantastici) e guidato da una Emily Blunt totalmente in parte, la pellicola disponibile su Netflix (qui potete scoprire i film in uscita a novembre 2023 su Netflix) non solo tenta di tracciare i confini di un'avidità disumana sotto forma di ricetta medica, quanto la riabilitazione personale di chi, schiacciato dal senso di colpa, tocca il fondo per risalire a testa alta senza perdere sé stesso. Un monito alla società americana, e a quella sete di potere innestata nei propri cittadini secondo cui il successo personale è il traguardo più importante da raggiungere, anche a costo di sacrificare tutto, dalla famiglia, agli amici, fino ai propri ideali. Peccato che quello di Yates è un atto denunciatorio senza basi e fondamenta solide, che finisce per volare lontano alla prima folata di vento, perdendosi in territori sconosciuti come una ricetta scomparsa tra le mani.

Pain Hustlers: questo dolore un giorno (non) ti sarà utile

Il dolore è insopportabile; il dolore è un compagno quotidiano che ti assale, ti sfinisce, ti atterrisce lasciandoti senza fiato, senza voglia di vita. E allora ecco che lo sguardo si perde alla ricerca di un antidoto alla pena, un palliativo anche momentaneo che ti sostenga, ti rafforzi, ti riporti alla vita. Ed è sfruttando questa ricerca del sollievo alla fine di un arcobaleno senza colori che tycoon senza scrupoli dell'universo farmaceutico si fanno avanti offrendo in dono un'eliminazione del dolore momentaneo in cambio dell'anima altrui.

Un gioco impari, di chi dà e non riceve, se non illusoriamente, che mai come in questo periodo l'universo della settima arte ha imparato a indagare, raccontare, denunciare. Da Dopesick (Disney Plus), al documentario Tutta la bellezza e il dolore (vincitore del Leone d'Oro a Venezia 2022), passando perfino al recente La caduta della casa degli Usher (ecco i racconti di Poe a cui si ispira La caduta della casa degli Usher), una ricetta si fa moneta di scambio di una dipendenza che può trasformarsi per alcuni in morte, per altri in ricchezza bagnata di sangue. Ed è inserendosi in questo contesto tematico mescolando fantasia e possibile realtà che Pain Hustlers tenta di denunciare l'animo più corrotto dell'essere umano, ma senza riuscirci appieno.

La giostra delle dipendenze

È una giostra caleidoscopica di luci abbaglianti, colori accesi e inquadrature raccordate con fare dinamico e ritmato, Pain Hustlers. Le tonalità non lasciano spazio a ombre o ambienti oscuri; tutto è perfettamente visibile, analizzabile, contestabile e quindi condannabile.

Una scelta perfettamente in linea con un film che tende a (far) riflettere su una società sempre più ancorata al feticcio, al materialismo, al vile denaro, ma che proprio per questo bombardamento visivo non colpisce appieno nel contesto del rimorso e del pentimento personale. Vediamo Liza, la seguiamo nella sua evoluzione professionale, perfettamente illuminata da un pattern cromatico e da un impianto fotografico scevro di ombre. Sembra un'attrice baciata dalla luce della ribalta, Liza Drake, e proprio per questo non riusciamo a crederle appieno. Veniamo toccati dal suo personaggio, ci immergiamo nello scorrere di lacrime sincere lungo un volto provato, percepiamo il suo ravvedimento morale, ma se tutto questo accade è merito di una performance sentita e onesta a opera di Emily Blunt. Orfana di una fotografia virata al buio dell'anima, e dipinta di sfumature ombrose, si smussa nel costrutto visivo di Pain Hustlers quella profondità di sentimento e di onestà che ne appiattisce il senso di ribaltamento etico e morale.
Vediamo lo spettacolo, il lusso, l'accumulo di ricchezza ai danni di uomini e donne dipendenti da medicine e oppiacei, ma non percepiamo il buio che inghiotte, il dolore che assale, il rimorso che attanaglia. Tutto si limita a un leggero sussurro, a un tocco sulla pelle, a un accenno lontano, senza veramente scuotere e colpire corpo e anima del proprio spettatore.

Ricopiare altre ricette

Vivendo di mille identità e assecondando i dettami di numerosi stili (da quello documentaristico, fino al dramedy) Pain Hustlers si dimentica di ritrovare una propria identità personale. Le interviste in bianco e nero riecheggiano una parvenza di verosimiglianza, alludendo a una realtà possibile, mentre il commento in voice-over, fatto di nozioni tecniche sulle imprese farmaceutiche e i libretti illustrativi, è un richiamo diretto a opere che bombardano lo spettatore trascinandolo nel proprio loop mentale come La grande scommessa.

C'è tanto da altro, ma poco di suo, nel film di David Yates: un continuo prendere in prestito, un copiare da altri compiti, senza trascrivere e rispondere con originalità alla prova assegnatagli. Ne consegue una rimessa in circolo continua di frammenti ripresi dall'immaginario collettivo, e imbevuti di una irrequietezza che travolge il continuum narrativo, trascinandolo verso altri mondi e altri stili lontani da sé. Seguendo una precisa linea narrativa, e una traduzione visiva univoca, il regista avrebbe pertanto realizzato un'opera capace di incanalare nello spazio di una risata, o di un colpo di scena, atti di denuncia a una contemporaneità ancora intaccata da dipendenze imposte in cambio di tangenti e favoritismi. Ma Yates ha preferito puntare su un collage variopinto, sproporzionato e spersonalizzato, un viaggio disorientante lungo un percorso dissociativo dell'identità, senza assuefazione, ripresa, o dipendenza, ma solo improvviso e limitante sollievo.

Tra burattini e burattinai

È un percorso disseminato di ostacoli e trappole insidiose, Pain Hustlers. Ciononostante, a caricarsi del ruolo di guida tra i sentieri di una selva oscura fatta di guadagni facili, e mani insanguinate, è il personaggio di Liza Drake.

Emily Blunt si getta a capofitto nella psicologia della donna, restituendone ogni sfumatura emotiva senza strafare, o esagerare, ma rimanendo dentro i binari di una performance convincente e consona alla natura altalenante di un personaggio che tenta di rimanere sé stesso, mentre tutto attorno a esso muta. Come Dante, anche Liza deve toccare il punto più basso del proprio inferno personale, per poter esorcizzare il dolore, attivare il processo di catarsi e risalire verso l'alto. Ma al suo fianco non avrà guide sagge, o porti sicuri a cui ancorarsi; Chris Evans scade con facilità verso un inutile over-acting che ne sporca la performance, rendendo il suo Pete Brenner ancora più grottesco di quanto poteva (e doveva) essere. Discorso del tutto opposto, e al contempo analogo, per Andy Garcia: la totale apatia del dottore/boss Jack Neill ingabbia l'attore in un ruolo senza scrupoli e senza mordacia che lo rende sprecato, sia narrativamente, che attorialmente, all'interno dell'opera.

Senza scomodare il paradigma manicheo dei buoni e cattivi, i personaggi di Pain Huslters pur non prendendo vita dal grembo materno di una biografia specifica, si vestono di possibilità, dividendosi equamente ed egualmente in oppressi e oppressori, umili e potenti; sono doppi perfetti di un'America dicotomica, legati insieme dalle fila di un destino che lascia loro solo la coscienza del proprio ruolo di burattinai, creature fittizie, simulacri di una realtà fattibile al di là dello schermo.
Il dolore è forte, quasi insopportabile. Il cuore batte all'impazzata e lo sguardo si pone alla ricerca di un palliativo alla sofferenza. Il film, con la sua portata catartica, si fa finestra sulla realtà e superficie che riverbera le ansie del mondo, contribuendo così a placarle.

È la medicina per un amore perduto, una delusione improvvisa, un abbattimento quotidiano; ci gettiamo tra gli spazi di un'inquadratura assumendo ogni fotogramma come paracetamolo contro il mal di testa (o il mal di vivere). Eppure, Pain Huslters è solo un semplice analgesico, una punturina veloce da dimenticare in fretta.
Nessun colpo al cuore, nessun assorbimento all'interno del nostro organismo. La sua struttura narrativa è un protettore gastrico che non distrugge, non permette di insinuarsi nel nostro sistema nervoso, intaccando la fantasia, modellando l'immaginazione, denunciando l'operato altrui.

Pain Hustlers Il film di David Yates tenta di inserirsi con mordacia all'interno di quella galleria cine-televisiva di prodotti atti a denunciare l'avidità del settore farmaceutico americano, senza riuscirci appieno. Complice una fotografia accesa, un pattern cromatico saturo e brillante, la mancanza di uno stile a cui ancorarsi e performance al limite dell'over-acting (in particolare quella di Chris Evans) Pain Hustlers non è quella scarica elettrica che desiderava essere, ma una leggera scossa epidermica che solletica lo spettatore, facendosi dimenticare nel breve tempo. Più videoclip musicale, che atto di denuncia, il film di David Yates vanta comunque un'interpretazione onesta e sincera da parte di una Emily Blunt impeccabile, ma limitata da troppa confusione e da una messa in scena di un'opera che vorrebbe essere tante cose, tutte insieme, senza ritrovarsi in nessuna.

6

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