Se è vero che un'opera è lo specchio dell'anima del proprio autore, allora quella di Caravaggio era davvero un'interiorità fatta di antitesi (abbiamo già parlato della vita da film di Caravaggio). Come i suoi dipinti, nel suo essere confluiva un continuo scontro duale tra l'ombra e la luce, talento e sofferenza, sacro e profano. Una lotta interna da riversare sulle proprie tele, tra paure, fragilità e insofferenze.
L'abbagliante insostenibilità dell'essere si incontrava nel buio di un'anima contrastata, attirata da una carnalità sensuale e un interesse verso gli ultimi, gli ignorati, verso soggetti di umana preziosità racchiusi nel corpo della povertà. Michele Placido non ha avuto paura di prendere questa dicotomia perpetua, per farne materiale narrativo su cui costruire con maestria e slanci anarcoidi il suo L'Ombra di Caravaggio, ultimo tassello di una galleria di pittori maledetti al cinema, prodotto da Goldenart Production con Rai Cinema e in sala grazie a 01 Distribution.
Gioco di ombre
Ombra, come quella che si insidiava mangiandosi dall'interno una personalità sfaccettata e dedita agli eccessi; Ombra, come quella che tra le mani del regista/attore si fa carne vivente, corpo che si muove e scruta, indaga, segue da lontano e in nome del Vaticano, il pittore lombardo.
La cinepresa di Placido si eleva a perfetto sostituto di occhi che osservano e orecchie che ascoltano, di mani che minacciano, e corpi che si muovono silenti, come folate di vento, e squarci di ombre leggere. Ancorata alla presenza scenica di un Caravaggio reso in termini di rockstar ante-litteram, la macchina da presa è sublimemente attratta da questa sostanza umana di forte interesse; come il personaggio interpretato da Louis Garrell, anche l'obiettivo di Placido non può fare a meno di indagare negli interstizi più profondi di una mente geniale, e di un'anima suggellata da violenze e slanci caritatevoli. Gli occhi di Caravaggio avevano ormai imparato a cogliere e immortalare nello spazio della propria mente la bellezza di anime perdute, di storie segnate da povertà e malattia. Eppure, quelle mani così abili nel tradurre tali presenze fantasmatiche in soggetti biblici, al rosso della tintura si erano ben presto abituate a ritrovarsi sporcate di sangue. Macchie ematiche di anime trattenute, vite prese e dolori afflitti. Quel rosso accecante, associazione cromatica di lussuria e passione, rivelazioni e santità, si slega del suo perfetto ruolo di intermediario tra il nero dell'anima e i gialli di una luce abbacinante, per farsi sinonimo di sangue che scorre, morte che avanza.
Il corpo di Caravaggio si fa per Placido elemento da distruggere, flagellare, elevare a contenitore di mostri interiori, e sarto della maestosità pittorica. E così, dopo la guancia trafitta da lame taglienti assurta ad apertura di sipario dell'opera, è su un altro dettaglio fisico, su quelle mani insanguinate, tramutatesi in strumento omicida, che Placido affida il segnale di partenza di una corsa cinematografica come quella de L'Ombra di Caravaggio; un'opera dicotomica e inafferrabile, proprio come la natura del suo protagonista.
Film biografico, ma anche storico e un po' thriller, in esso convivono mille e più esistenze; una confluenza di generi diversi che il regista, co-adiuvato dalla sceneggiatura di Fidel Signorile e Sandro Petraglia, riesce a bilanciare con equilibrio, dipingendo un quadro armonico, ed empaticamente alquanto d'impatto.
Il manifesto del talento incompreso
Ma L'ombra di Caravaggio è soprattutto l'agiografia dell'essere artista; un saggio redatto con la forza delle immagini sulle difficoltà di tenere a bada i propri demoni interiori, lasciandoli fuoriuscire nel corpo di personaggi impressi per sempre su tela, tra i confini di un'istantanea di olio e pigmenti dai tratti sconvolgenti, ma proprio per questo capaci di emozionare e smuovere l'anima di spettatori di ieri, quanto di oggi.
E per un'opera che alla componente umana non ha paura di esaltare il genio di un artista come Caravaggio, a giocare un ruolo predominante è la fotografia cangiante, avvolgente, a opera di Michele D'Attanasio. Interiorizzando e facendo proprio l'insegnamento lasciato in eredità dallo stesso Caravaggio, D'Attansio avvolge ogni minimo dettaglio di una lotta intestina tra luci e ombre, enfatizzando i corpi e sottolineando la potenza di emozioni latenti, e sentimenti celati. Una fotografia passionale, capace di colmare lacune narrative, o smorzare una certa ossessione didascalica per passaggi presi e rimodellati con fare drammaturgico in cui la retorica di parole e concetti complessi, frena la fluidità di un racconto di umana fattura; grazie alla dicotomia fotografica di D'Attansio, anche incontri come quelli tra Caravaggio e Giordano Bruno vivono così di passione, limando il proprio contenuto retorico, per tratteggiare un manifesto coinvolgente sulla complessità del genio e della sua incapacità di farsi spazio tra voci interiori che stuzzicano l'udito con pensieri ombrosi, e istinti latenti che ne sfumano il quadro interiore con vizi e virtù, fragilità e talenti.
Imperfettamente umani, artisticamente perfetti
Imperfettamente umana: ecco come si può definire l'arte di Caravaggio. Nello spazio infinitesimale di ogni pennellata si sente il desiderio di elevare la componente fragile e imperfetta dell'essere umano a una sfera di perfetta redenzione.
È nel corpo delle prositute, negli occhi spenti dei mendicanti, o nella pelle ferita, segnata, pallida dei malati, che l'artista ritrova l'essenza divina nella quotidianità terrena. Un gioco di associazioni e ribaltamenti che Placido riesce a cogliere e tradurre, anche grazie a una galleria attoriale abile nell'interiorizzare paure e gioie, umorismo (a volte un po' troppo eccessivo) e tentazioni demoniache, dei propri personaggi. Riccardo Scamarcio trova nel personaggio di Caravaggio il suo alter-ego filmico, restituendo una performance credibile e introspettiva. Negli occhi sgranati dell'attore si possono scrutare le mille sfumature ossessive che bruciavano nel cuore del pittore; al contempo, l'interpretazione tutta giocata in sottrazione, e fondata su un minimalismo espressivo e gestuale della sua Ombra, fanno di Louis Garrel l'opposto perfetto di un protagonista in perpetuo movimento, sia fisico, che interiore. Gelido, algido, inquietante, il personaggio di Garrel è un'ombra demoniaca pronta ad avvolgere lo sprazzo di luce emanato dal talento di un Caravaggio umano, proprio perché imperfetto e ambizioso. Un quadro da analizzare da diversi punti di vista, che Scamarcio ricalca con attenzione, in una copia carbone di forte intensità, sebbene sfumata qua e là da un'enfasi caratteriale e gestuale a tratti un po' troppo eccessiva.
Sempre ottima anche Isabelle Huppert che fa della sua Costanza Colonna la versione impersonificata dell'attrazione spontanea, e dall'ammirazione profonda scaturente non solo dalle opere, ma anche dalla personalità stessa del Caravaggio. Un talento senza tempo, capace ancora oggi di raccogliere gallerie di sguardi pronti a immergersi nell'oceano del talento di un'arte così imponente, perfettamente tradotta e ricreata da Placido anche dalla potenza di tableaux vivants delle tele dell'artista e attraverso i quali restituire la stessa potenza empatica e interiore che vive e rende tangibile un''opera bidimensionale.
C'è qualcosa di magico che vive nascosto tra le pennellate del Caravaggio. C'è un cuore che batte e un'anima che si distacca dalla tela per insidiarsi nel corpo di chi guarda. Un processo tanto spirituale, quanto carnale, che L'Ombra di Caravaggio studia, indaga e tenta di ricreare, non sempre riuscendoci. Eppure, è proprio nel momento in cui si ancora fedelmente al genio di Merisi, alla potenza artistica dei suoi quadri, e alla mente del suo talento, che l'opera di Placido si tramuta in stetoscopio di natura cinematografica attraverso il quale auscultare il battito cardiaco di un'immortalità artistica fattasi emozione, creatura perfetta nata tra l'ombra del desiderio, e la luce del sentirsi vivi.
Concludiamo questa recensione de L'Ombra di Caravaggio sottolineando come l'opera di Michele Placido si presenti come un saggio agiografico non solo sul pittore lombardo, quanto sulle difficoltà dell'essere un artista dai tratti geniali. Tra biopic e thriller, il film punta su una fotografia reduplicante l'arte caravaggesca, e una galleria attoriale convincente e in parte (in primis, Louis Garrel nei panni dell'Ombra). Peccato per alcuni passaggi pieni di retorica e didascalismo che vanno a frenare una narrazione fluida e interessante.