Recensione Oculus

Uno specchio maledetto e due giovani coinvolti in un mistero mortale nel nuovo film di Mike Flanagan

Recensione Oculus
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Dobbiamo iniziare dal cortometraggio originale Oculus, horror tetro e scarno che il regista Mike Flanagan aveva ambientato all'interno di un'unica stanza bianca, con un solo personaggio e duemila dollari di budget.
Ma, storia di una donna che, insieme alla sorella, comincia a collegare delle inspiegabili sparizioni nel quartiere a un tunnel misterioso, è stato Absentia, realizzato nel 2010 da Flanagan in quindici giorni raccogliendo fondi attraverso il sito www.kickstarter.com, a determinare la trasformazione dello short in lungometraggio.
Infatti, pare che Anil Kurian, vicepresidente del dipartimento Sviluppo dell'Intrepid Pictures, un giorno abbia tirato fuori una copia del film dalla pila di quelli che erano nel suo ufficio e, dopo averlo guardato, abbia affermato: "Guardando Absentia ci siamo accorti che Mike Flanagan è un narratore di grande talento e che crea personaggi veri, che catturano l'interesse, cosa che non succede spesso nei film horror. I suoi personaggi non sono stereotipi che vengono buttati nella sceneggiatura per poi essere brutalmente uccisi all'occorrenza".

Chi vive in quello specchio?

Quindi, il tutto si è trasformato nella vicenda di Tim Russell, ovvero il Brenton Thwaites del tv movie Laguna blu: Il risveglio, il quale, accusato del brutale assassinio del padre e della madre, lascia dieci anni dopo il carcere con l'unico desiderio di lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare, mentre la sorella Kaylie alias Karen Gillan è fortemente convinta che la tragedia sia stata causata da una forza maligna nascosta nello specchio che si trovava nella casa di famiglia.
Un'idea di partenza che, se da un lato può vagamente richiamare alla memoria quella di Hates - House at the end of the street di Mark Tonderai, dall'altro sembra fortemente riallacciarsi al soggetto di base del dimenticato Mirror (Chi vive in quello specchio?), diretto nel lontano 1980 dal tedesco Ulli Lommel e riguardante, appunto, fratello e sorella alle prese con uno specchio maledetto a causa di una tragedia che li vide protagonisti anni addietro.
Anche se, in verità, dal momento in cui i due constatano che, nel corso dei secoli, i diversi proprietari dell'oggetto sono stati tutti vittime di morti violente simili a quella dei loro genitori, è evidente che sia il coreano Into the mirror di Sung-ho Kim - già oggetto del rifacimento Riflessi di paura di Alexandre Aja - il referente principale dell'operazione, continuamente orchestrata alternando passato e presente ed illusione e realtà.
Dove sarebbe, allora, l'originalità? Semplice, non c'è, in quanto, tra lenta attesa e situazioni tendenti a ricordare, inoltre, l'Amityville possession del nostro Damiano Damiani, non si sguazza altro che in mezzo all'ennesimo assemblaggio di cupe immagini infarcite di immancabili apparizioni di spettrali figure femminili da J-Horror e destinato, di conseguenza, a risultare già visto e tutt'altro che capace di spaventare lo spettatore.

Oculus Mike Flanagan trasforma in lungometraggio il suo short Oculus, ricordando non poco illustri predecessori cinematografici che vanno dal coreano Into the mirror (2003) di Sung-ho Kim ad Amityville possession (1982) di Damiano Damiani. Di conseguenza, nonostante la buona volontà manifestata tramite la efficace messa in scena, il risultato finale altro non è che un lungo e noioso elaborato che, del tutto privo di originalità, non riesce in alcun modo a trasmettere tensione e paura nel concretizzare su celluloide l’ennesima allegoria horror relativa alla necessità di sconfiggere le proprie paure infantili (quindi potremmo tirare in ballo anche Boogeyman - L’uomo nero di Stephen T. Kay).

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