Recensione Nymphomaniac: Volumi 1&2

Di Lars Von Trier e del suo ultimo, chiacchieratissimo, film

Recensione Nymphomaniac: Volumi 1&2
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«How do you think you’ll get the most out of the story: by believing or not believing in it?»: è la domanda che Joe, la “ninfomane” del titolo, il cui volto ha i tratti severi e spigolosi dell’attrice Charlotte Gainsbourg, rivolge a Seligman (Stellan Skarsgård), intellettuale ebreo che l’ha raccolta ferita e sanguinante a un angolo di strada, all’incirca a metà del lungo racconto-confessione che copre quasi per intero i 240 minuti di durata di Nymphomaniac - suddivisi, per pure ragioni distributive, in due “volumi” aderenti ad un medesimo corpus (del singolo primo “volume” abbiamo pubblicato la recensione a quest'indirizzo). Un monito che potrebbe essere valido tanto per Seligman, spesso scettico o addirittura incredulo di fronte alle parole della donna, quanto per lo spettatore. Del resto, che Lars von Trier fosse un gran bugiardo (come prima e più di lui anche Orson Welles e Federico Fellini) lo avevamo sospettato da tempo. Fiero sostenitore del potere dell’affabulazione o, in una dimensione prettamente cinematografica, della forza evocativa delle immagini nel loro intreccio con parole e musica (qui numerose composizioni classiche, fra cui Mozart, Bach e l’amato Wagner, ma pure il furioso hard-rock Führe mich dei Rammstein): non necessariamente come veicolo per restituire una presunta “verità del reale”, ma piuttosto per esprimere una ben più profonda “verità dell’anima”. Come accadeva alla stessa Charlotte Gainsbourg e a Willem Dafoe, coppia sconvolta dal dolore del lutto, nei deliri mistico-sessuali di Antichrist, o alla triste sposina Justine (Kirsten Dunst) in Melancholia, in cui il male di vivere si riverberava in una sorta di Armageddon perfino invocato.

JOE & Jerôme

Pertanto, a conti fatti non importa a quale livello di trasgressione o a quali estremi di “perversione erotica” si spinga la protagonista Joe nel corso delle quattro ore del film (a cui andrebbero aggiunti trenta minuti di scene tagliate per l’edizione internazionale), assumendo il volto e le sembianze, durante gli otto capitoli che scandiscono la narrazione, della 42enne Charlotte Gainsbourg o della 22enne al suo debutto Stacy Martin. Non importa perché Nymphomaniac di certo non ha nulla di una ricostruzione pseudo-documentaristica sull’esperienza della ninfomania (e conoscendo von Trier, non ce lo saremmo mai aspettato), né tanto meno dovremmo stupirci per le clamorose coincidenze che, in diverse fasi della sua vita, portano Joe a re-incrociare la propria strada con quella di Jerôme Morris (Shia LaBeouf), ideale personificazione dell’universo maschile filtrato attraverso l’immaginario femminile di Joe e ‘declinato’ di volta in volta nei suoi vari ruoli archetipici: il rude meccanico che acconsente alla richiesta di deflorare la ragazza nella sua tenera adolescenza; l’arrogante capo-ufficio al cospetto del quale Joe è disposta a ridursi ad un oggetto sessuale privo di volontà; il partner ritrovato in una giornata di sole, come nella più idilliaca delle fantasie romantiche; il padre di famiglia con il quale, tuttavia, Joe non riesce più a provare piacere, finendo per abbandonare il tetto coniugale e per rinunciare alla sua funzione di compagna e di madre.

L’IMPERO DEI SENSI

E proprio nel suddetto amalgama fra il verismo della messa in scena, anche nelle sequenze erotiche (con puntuale ricorso a body-double per le inquadrature ‘anatomiche’), e lo sguardo di Joe, del tutto personale e soggettivo nel rievocare le tappe di questo “percorso di formazione”, risiede una possibile chiave di lettura dell’opera di Lars von Trier. Un’opera in cui l’esplorazione del desiderio, nonché l’analisi degli abissi di sofferenza dell’animo femminile (la perdita del padre, la lotta contro la dipendenza dal sesso), sono costantemente corredate da un’irridente ironia, talvolta pericolosamente (e volutamente?) prossima al grottesco e al kitsch: dalle colorite similitudini sulla vagina, paragonata prima all’esca nella pesca con la mosca e poi alle porte scorrevoli dei supermercati, al taglio delle unghie come metafora del rapporto fra dovere e piacere; dalle dissertazioni sull’uso della forchetta da dessert per consumare il rugelach alla sequenza in cui Joe, al tavolino di un ristorante, si infila un intero servizio di cucchiaini fra le cosce (con buona pace di Meg Ryan e di «Quello che ha preso la signorina»); dall’allucinazione blasfema, à la Luis Buñuel, in cui la protagonista, in preda all’estasi orgasmica, si immagina in una trasfigurazione cristologica sospesa fra Valeria Messalina e la meretrice di Babilonia, al tentativo interruptus di ménage-à-trois in cui la donna rimane ad osservare tacitamente i peni eretti di una coppia di fratelli “negri” impegnati a discutere, in una lingua sconosciuta, sui rispettivi ruoli nel triangolo e l’uso della parola “negro” rimanda a un discorso più ampio sul tentativo di rimozione dei vocaboli ‘osceni’ dal vocabolario di una società dominata dal moralismo.

L'ingrediente segreto

In tale prospettiva, Joe risulta una figura sospesa fra il senso di colpa, l’impulso all’auto-flagellazione (la donna, pestata a sangue, non esita a dichiarare a Seligman di essere una persona “cattiva”), e specularmente un istinto di ribellione non sempre focalizzato con precisione. Da teenager, si tratta di una rivalsa collettiva contro una società basata sull’amore, messa in atto da un gruppo di coetanee collezionando rapporti occasionali a bordo di un treno o riunendosi sotto lo slogan Mea maxima vulva, secondo un proposito di “trasgressione fuori tempo massimo” prontamente mandata in crisi dalla dichiarazione di una delle ‘sodali’ di Joe, secondo la quale «l’ingrediente segreto del sesso è l’amore». Da adulta, la suddetta ribellione si esprimerà invece in una generica opposizione ai valori promulgati dal perbenismo di una borghesia bigotta ed ipocrita - e gli strali contro la borghesia, specie nelle sue derive di conservatorismo pseudo-religioso, rappresentano un altro leit-motiv nella produzione del regista danese. Una densità di spunti e di intenti in cui, al fascino narrativo e formale legato alla straordinaria consapevolezza, da parte di von Trier, sulle potenzialità della macchina-cinema corrisponde una certa fragilità intrinseca rispetto alla statura dei temi trattati (il consueto punto debole di von Trier). I topoi al cuore di Nymphomaniac, in fondo, sono ormai risaputi: l’Eros come strumento di manipolazione e di controllo; la stridente dicotomia fra la promiscuità sessuale e una divorante solitudine; i richiami freudiani, non proprio originalissimi, al complesso di Elettra, con l’intenso legame fra Joe e il padre (Christian Slater). Tuttavia, resta innegabile la capacità del regista di coinvolgere ed irretire il proprio pubblico, giocando con le sue aspettative e divertendosi, come forse mai prima d’ora, a sovvertire di continuo tono e registro del racconto (appunto in virtù della sua struttura episodica), fra segmenti sopra le righe e semi-parodistici - la visita a sorpresa di Mrs. H (Uma Thurman), moglie abbandonata e campionessa del comportamento passivo-aggressivo - e parentesi di trasgressione più anacronistica che non davvero scandalosa - le sedute sado-masochistiche fra Joe e K (Jamie Bell). Con il risultato, pressoché inevitabile, di spaccare ancora una volta gli spettatori fra sostenitori adoranti, pronti a gridare un po’ frettolosamente al capolavoro, e detrattori convintissimi che il cinema di von Trier consista sostanzialmente in aria fritta. Ma, ci sentiamo di aggiungere, una frittura spesso squisita.

Nymphomaniac Due volumi, quattro ore, otto capitoli per una complessa indagine sulla natura del desiderio femminile attraverso il racconto-confessione della protagonista Joe, interpretata dall’attrice Charlotte Gainsbourg, impegnata a ripercorrere le varie tappe della sua iniziazione al sesso e delle sue ardite sperimentazioni erotiche, in un doppio film in cui il regista Lars von Trier dà sfoggio della propria capacità di fascinazione sul pubblico, ma anche di una pungente ironia declinata spesso in direzione anti-borghese.

7.5

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