Recensione Nymphomaniac

Lars Von Trier presenta a Berlino la sua ultima, chiacchieratissima, opera

Recensione Nymphomaniac
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Ormai è una costante: dovunque Lars Von Trier si presenta è sempre chiasso, clamore e fuochi d’artificio! Non che sia una sorpresa: il film dell’acclamato regista danese è forse la maggior attrattiva (o comunque il più vivo focolaio di pettegolezzo) della 64° Berlinale. Non avrebbe potuto essere altrimenti, polvere da sparo, micce e un fitto campo minato erano pronti ad esplodere, bisognava aspettare solo la fine del countdown... Che si è azzerato oggi, disinnescando la “bomba”. Ricetta per un putiferio in sana “salsa festival”: prendete un personaggio sui generis come Lars Von Trier, aggiungeteci dei suoi trascorsi a Cannes 2011 (di questo ne riparleremo più avanti), il suo ritorno su grande schermo dopo quasi tre anni con un titolo particolarmente sfrontato e disinibito, dove gli atti sessuali, i rapporti orali e le più raffinate pratiche di cunnilingus si pavoneggiano con orgoglio. Mettiamoci in più un super cast coi fiocchi, protagonisti-narratori Charlotte Gainsbourg e Stellan Skarsgard, passando per Stacy Martin, Shia LaBeouf, Christian Slater, Willem Dafoe, Uma Thurman, Jamie Bell, e la lista potrebbe continuare. Pensare poi che molte di queste star lasciano ciondolare allegramente i loro più intimi organi, avete capito come mai Nymphomaniac ha generato la conferenza stampa più affollata delle ultime edizioni (probabilmente la più affollata di sempre alla Berlinale), con uno sciame inesauribile di giornalisti che assediava tutto lo scalone dello Hyatt hotel. Ma quindi, com'è il film? Se ne sente parlare moltissimo, e soprattutto male. Ma è davvero così “male”?

VOLUME I

« Mi sei cresciuta nel cuore / Quando sanguino, tu hai i dolori / Dobbiamo conoscerci / Un corpo, due nomi / Niente può separarci / Una doppia forma nel seme »
Il film comincia sulle note sparate a mille di Führe mich (“Guidami”) dei Rammstein, ad aprire magistralmente il palcoscenico narrativo di un film che proseguirà sempre sul contrasto tra apparente pacatezza e dirompente caos. Il film racconta la vita di Joe, la crescita dal momento della scoperta della sua sessualità. E’ un racconto tutto in flashback, narrato da una Joe adulta (Charlotte Gainsbourg, splendida come al solito) a un empatico Seligman (Stellan Skarsgard), nome ebreo che sta per “colui che è felice” (piccola curiosità: Rafael Seligman è anche uno dei primi studiosi di teoria sul cinema).
Struttura scandita a capitoli (un pochino come Melancholia, che in realtà era solo diviso in due parti, mentre in questo caso abbiamo diversi capitoli e le illustrazioni di ognuno appaiono ironiche e divertenti, quasi ammiccando allo stile di Wes Anderson), segue la giovane Joe (Stacy Martin, molto convincente) crescere in fretta, contare le prime “zompate” ricevute da Jerome (Shia LaBeouf), fare a gara con l’amica B. a chi si fa più uomini in un viaggio in treno, e la giostra continua a ruotare follemente... ci si muove dall’ufficio a Jerome di nuovo, dall’ospedale con il padre in fin di vita (Christian Slater) ai paragoni geometrici, aritmetici, musicali proposti da Seligman, che si lancia in un appassionato commento al racconto spiegandolo metaforicamente con la pesca del pesce volante. Quasi due ore e mezza di film: un mondo che si sprigiona.

LONG VERSION

Inutile girarci intorno: i film di Lars Von Trier, specialmente quando visti ai festival, si portano dietro l’ingombrante figura del regista, grave e pesante sulla percezione che il pubblico ma soprattutto i giornalisti hanno del film. Se è ovviamente vero che tutto il cinema è soggettivo, è pur vero che Von Trier con le sue opere crea una forbice assai più netta, dividendo senza sfumature in un odi et amo (più odi che amo ultimamente, in effetti). Ma a noi il film è piaciuto molto, riteniamo che sia la degna parte terza della cosiddetta «trilogia della depressione» (composta con Antichrist e Melancholia) e l’ennesima conferma di uno dei più capaci registi della nostra epoca, tanto sopra le righe (MOLTO sopra le righe) quanto talentuoso nel raccontare storie, nel plasmare film che ibridano linguaggi e sensazioni, e anche a far discutere, persino litigare, ma comunque interessare.
Per certi versi non si può negare che la long version del film (20 minuti in più, con tutte le parti “uncut” in cui falli, vagine e rapporti sessuali e orali fanno bella mostra di sé) sia stata pensata come aperta provocazione per essere ancora al centro dei riflettori, da vero esibizionista. Ma non c’è niente di male in questo, non quando sei in grado (come lo è Von Trier) di creare 145 minuti coinvolgenti e mai noiosi, ironici e quasi faceti, ma in fondo abissalmente tragici. La divisione in capitoli è stata pensata in modo geniale, l’interlocutore del racconto-flashback Seligman è straordinario coi suoi commenti, e le grafiche in sovraimpressione sono la pennellata che va ad adornare il lungo racconto autobiografico di Joe e a completarlo. Piace la delicatezza del contrasto tra l’industrial metal dei Rammstein e la classica di Bach, piace il paragone coi pesci volanti e piace molto l’idea della sequenza di Fibonacci, e le tre differenze di tono che vengono suonate e amalgamate a comporre un’armonia. Ma soprattutto piace, ancora una volta, la capacità innata di Von Trier a dischiudere sentimenti, emozioni e tutto il substrato del “non detto” tra i personaggi in scena, in un modo pressoché unico ed inimitabile (la stessa caratteristica che è vera forza di Melancholia, forse il migliore tra i suoi ultimi film), con il coraggio di andare contro ai comuni codici etici e scegliere il proprio, anche se scandaloso come in questo caso. Sì, Von Trier ha esagerato tutto il lato non censurato e sì, lo ha fatto per puro esibizionismo, ma lo ha fatto con maestria, non stona assolutamente e soprattutto aiuta a sdoganare in maniera fondamentale il rapporto sessuale (e l’organo sessuale) al cinema, come mai prima d’ora.
Della serie: “come ti faccio entrare in punta di piedi il porno in un film d’autore”. Se chi lo usa lo sa effettivamente usare, come in questo caso, ben venga.

Nymphomaniac Sì, di questo film parlano male in tanti, e si continuerà a lungo con le critiche. Ma il film è effettivamente l’ennesimo grande titolo di un talentuoso regista, forse non un capolavoro (ma si dovrà vedere anche il volume II per parlarne a tutto tondo) e non con la stessa potenza di scavo interiore del precedente Melancholia, ma comunque un lungometraggio che contiene il piacere del cinema, del racconto, e che tratteggia finalmente il collegamento necessario tra il vedo e non vedo. Ora se ne parla frequentemente male, ma molto dipende anche dal clima, dall’aperta provocazione, dalla persona che lo ha “partorito” e dal momento: probabilmente tra vent’anni sarà considerato un capolavoro, uno di quei film poco apprezzati all’uscita ma osannati in seguito (la storia del cinema ne è piena). E comunque, come si fa a non sorridere di fronte a Lars Von Trier che, durante il photo-call, apre la cerniera della felpa e rivela una maglietta col logo del festival di Cannes e la scritta «Persona non grata»?

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