Ultima Notte a Soho, la recensione: moda e orrore nel film di Edgar Wright

L'autore della Trilogia del Cornetto presenta il suo nuovo film a Venezia 78, un thriller psicologico di raffinata eleganza.

Ultima Notte a Soho, la recensione: moda e orrore nel film di Edgar Wright
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A quattro anni dal suo dinamico Baby Driver - Il genio della fuga di cui abbiamo la recensione, il talentuoso Edgar Wright è pronto a tornare in sala con la sua nuova fatica autoriale, Ultima notte a Soho, presentato fuori concorso al Festival di Venezia 2021. Un film atteso e posticipato, questo di Wright, presentatoci a monte e dallo stesso regista come "diverso dalle sue precedenti opere". Un'uscita a piedi pari dalla comfort zone commediata e black-humoristica ancora più decisa del suo precedente progetto, interessato a esplorare il genere dell'orrore psicologico con visione nitida e ben calibrata su di una chiara metrica stilistica, uno sguardo innamorato e ammiccante al cinema di Roman Polanski e Nicolas Roeg, non a caso sue ispirazioni principali e dichiarate.
La storia segue la vicenda Eloise (Thomasin McKenzie), per gli amici Ellie, una giovane ragazza sempre vissuta nella campagna britannica e ossessionata dalla Swinging London degli anni '60, dagli abiti e dalla musica del tempo.

Il suo sogno è diventare stilista, e quando riesce a entrare in un prestigioso istituto della City, Eloise ha finalmente modo di trasferirsi nella Capitale e vivere a pieno una città che ha sempre desiderato visitare, cercando di realizzare il proprio sogno. Una volta a Londra, però, la ragazza scopre di avere una strana connessione con una cantante dell'epoca, Sandy (Anya Taylor-Joy), riuscendo misteriosamente a tornare indietro nel tempo a quegli anni di swing, fumo, luci e abiti sgargianti. Non tutto è però come appare e quello che inizialmente sembrava un sogno comincia velocemente a trasformarsi in un incubo che inghiotte tutti i sogni e i desideri di Eloise, trascinandola in un vortice di paura e ossessione da cui fuggire.

Il gioco di specchi di Edgar Wright

Ultima notte a Soho è davvero il titolo che sancisce un distacco concettuale più marcato nella filmografia wrightiana, non solo sulla carta. Per questo risulta essere anche il suo film più autoriale e personale, dove il regista di Hot Fuzz e La fine del mondo ha riversato tutto il suo intimo incanto per l'abbacinante periodo descritto (il più sfavillante mai vissuto da Londra), unendolo poi a quella passione per la musica sempre vivida e pulsante nei suoi titoli ma qui quasi diretta evoluzione di quanto fatto in Baby Driver, solo sfruttando in modo meno diegetico la colonna sonora - essenziale, importante, gigantesca -, non per forza narrativa (ma in una o due occasioni il ritmo che accompagna le immagini torna prepotente).

A differenza del Malignant di James Wan (e qua c'è la recensione di Malignant), crasi attentamente sproporzionata della sua cifra stilistica, anche Wright ha riversato estro, cuore e cinefilia in Ultima notte a Soho, tentando però di superare se stesso senza per questo snaturarsi, circumnavigare l'anima della propria metrica formale per scoprire nuovi e appaganti metodi descrittivi, punti di vista più art house. Alla fine è venuto fuori un lungometraggio cinematograficamente portentoso in cui è soprattutto l'ingegno tecnico e artistico a corroborare di vitalità, energia e dinamismo l'intenso gioco di specchi impalcato in sceneggiatura dall'autore insieme alla penna di Krysty Wilson-Cairns, scelta dallo stesso Wright per il suo lavoro carico d'inquietudine e introspezione in Penny Dreadful. L'impatto visivo è incantevole e seducente, ricco di charm e glamour e splendide soluzioni ottiche tra Argento e Refn (un plauso all'eccezionale fotografia di Chung Chung-hoon) capaci di inebriare di angoscioso stupore lo spettatore, invitandolo a partecipare attivamente al viaggio di Eloise, a vivere con lei il feroce malessere "di una Londra che a volte può essere un po' troppo".

In questo senso, Edgar Wright racconta una città in grado di inglobare letteralmente tragedia e felicità tra i propri edifici, un organismo urbano in continua evoluzione e cambiamento che nasconde tra le sue vie e dentro molte pareti segreti inconfessabili, sogni infranti, verità dolorose da digerire. Un evidente odi et amo a una metropoli che è un grande melting pot etnico e culturale ma anche emozionale e umano, in grado di elevare o distruggere una persona a seconda dei casi.

Interpreti straordinari a Soho

Oltre al centrato e brillante aspetto formale, Ultima notte a Soho vive e respira dei suoi meravigliosi interpreti, prima fra tutti una magnetica Anya Taylor-Joy. Wright la dirige con mano candida e leggera, riuscendo a tirare fuori il meglio delle sua espressività e del suo fascino, portandola a eguagliare la caratura attoriale già dimostrata nella blasonata serie tv La regina degli scacchi di Netflix di cui abbiamo la recensione.

Quello di Sandy sembra poi un personaggio agli antipodi rispetto alla Beth Harmon della serie, soprattutto per quanto riguarda carattere e ingenuità, eppure la Joy le regala la stessa eleganza e la stessa compostezza. E poi canta e balla (c'è pure una bellissima citazione a Pulp Fiction) e riesce a essere insieme attrice, musa e showgirl in una delle migliori performance della sua carriera.

Ottima anche Thomasin McKenzie, qui alle prese con il suo terzo ruolo da protagonista e per la prima volta nel genere dell'orrore, pure se essenzialmente psicologico. Nel corso del film, nei suoi occhi è possibile intercettare tutta la sofferenza di una persona in bilico tra sperata felicità e insanità mentale, immortalata da Wright con grande delicatezza ma inserita in un contesto dove è necessario maturare scelte veloci.

Un personaggio che vive di una complessità emotiva quasi coming of age, trattandosi in effetti di (tras)formazione caratteriale, e ricco di un baglio di dettagli davvero interessante. Insieme a loro, bravo anche un seducente e misterioso Matt Smith.
Ultima notte a Soho è un racconto cucito come velluto addosso ai suoi interpreti, il film più glam e sofisticato dell'autore della Trilogia del Cornetto che vi raccontavamo nel nostro speciale, ma ugualmente ricco di movimento, musica e ingegno. C'è dentro una riverenza ossequiosa ai suoni e alla magnificenza del passato, ma anche una pungente critica femminista a un "mondo Uomo" che va ridimensionato con tatto e cognizione, allontanando estremismi di sorta e vari vittimismi del caso. Un titolo di classe e buongusto finché non lo è più, in evoluzione, citazione e in mutamento proprio come il suo regista e la sua protagonista, straniante eppure immersivo, ipnotico eppure respingente. Una dicotomia concettuale che si lega a doppio filo con quella sostanziale e contenutistica, divisa anche nella forma tra ricordo (di Repulsione, di Suspiria, di Don't Look Now) e attualità. Per questo a nostro avviso è il film più complesso del regista, quello su cui è forse necessario soffermarsi più a lungo per comprenderne sfumature e idee. Una volta entrati a Soho, però, difficilmente riuscirete a uscirne.

Ultima notte a Soho Ultima notte a Soho è il film più glam di Edgar Wright finora, differente nell'anima dal suo cinema frenetico e divertito ma ugualmente energico e sofisticato, pieno di movimento e ingegno. C'è dentro una grande riverenza alla musica e alle atmosfere del passato, un odi et amo per una Londra "che a volte può essere troppo", capace di fagocitare come un incubo urbano troppo reale tanti sogni ricchi di speranza e ingenuità. Un'opera sospesa tra presente e ricordo, pungentemente femminista e consapevole del suo percorso, ma anche vellutata e setosa, cucita addosso ad Anya Taylor-Joy e Thomason McKanzie come un leggero abito di raso in cui muoversi con sinuosa eleganza o feroce malessere.

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