Recensione Nodo alla gola

Ottimo restauro a sessant'anni dall'uscita di questo classico di Alfred Hitchcock

Recensione Nodo alla gola
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Nodo alla gola, ovvero: il film che quasi ogni cinefilo feticista, e non solo, trova incredibile ad ogni visione, come se ogni volta fosse diverso, come se il film venisse ri-girato tra una proiezione e l’altra. Classe 1948, il film fa già parte della fase americana del maestro Alfred Hitchcock ma ancora con le musiche di Leo Forbstein - il celebre sodalizio con Bernard Herrmann comincerà infatti nel ’55 con La congiura degli innocenti, una commedia nera che ogni appassionato di Wes Anderson dovrebbe vedere. Nel corso della retrospettiva dedicata a Hitchcock dallo Spazio Oberdan a Milano (otto titolo dei più celebri del famoso regista), in concomitanza con la mostra a Palazzo Reale, abbiamo così occasione di rivedere un grande capolavoro sul grande schermo, 65 anni dopo, restaurato con meticolosa cura dalla Universal.

UN PRIVILEGIO PER POCHI

Nodo alla gola non fa mistero della sua trama: al di sopra di una placida strada accaldata di New York, due uomini strangolano e uccidono un uomo biondo, tale Kentley. E’ così che, con una presentazione e un avvio in medias res destinato a far scuola, i tre protagonisti di un complicato triangolo degno di Pitagora si presentano: Brandon e Phillip, facoltosi studenti (omosessuali e in una relazione, anche se non viene mai detto apertamente) di nota capacità, hanno appena ucciso il loro amico David e lo hanno rinchiuso in una panca d’antiquariato proveniente dall’Italia. Un momento di confusione e di esaltazione, poi lentamente ma inesorabilmente la follia perversa dei due omicidi esplode silenziosa: non è stato un atto impulsivo né dettato da un vero movente, ma solo il puro gusto di uccidere, il delitto perfetto, tanto voluto in particolare da Brandon, fermamente convinto che “uccidere è un’arte” e che “il potere di distruggere può essere tanto gratificante quasi quanto quello di creare”. Ma se i nervi sono già a dura prova, se il pianista Phillip è visibilmente agitato e rumoroso, nemmeno Brandon riesce a nascondere di quando in quando il suo balbettio nervoso o il tremore delle mani. Poi il citofono squilla. Gli ospiti arrivano. Sì, perché Brandon aveva già organizzato una festa: un meticoloso piano perverso ai danni di David, nutrito del gusto più macabro. Nel dissimulare la panca a centro sala in cui il cadavere è nascosto, i due assassini trasferiscono tavola, candelabri e vettovaglie dal tavolo di cucina alla sua superficie, che pare ora un vero e proprio altare sacrificale. E con queste premesse, accolgono i loro ospiti: la Signora Wilson (governante), Kenneth, il padre di David e la zia, la bella Janet, ma soprattutto Rupert Cadell, il loro insegnante ai tempi del college, impersonato dall’immancabile James Stewart.

LA FIERA DELLE VANITà

80 minuti di ipnotica tensione, un noir senza vero noir, un giallo sui generis tratto dall’omonimo lavoro teatrale di Patrick Hamilton (e Hitchcock si è mosso bene sulla scena, la sua regia in molti film è capace di mescolare le capacità proprie del teatro ai mezzi cinematografici), sorta di lungo pianosequenza - anche se vero pianosequenza non è, dal momento che una bobina poteva durare poco più di dieci minuti. E’ un assemblaggio di dieci sequenze (la più corta conta quattro minuti e mezzo, la più lunga poco più di dieci), abilmente amalgamate in modo da sembrare un unico pianosequenza, con elementi a oscurare il passaggio tra uno stacco e l’altro (chiudere su una giacca, per esempio), per la verità rotto in tre momenti: l’inquadratura iniziale, fuori della casa, e due inquadrature durante il film, durante il quale si ha un evidente stacco che elude al pianosequenza. Ancora oggi però si elogia la sfida ardita di Hitchcock di condensare ottanta minuti di difficile e intrigata materia giallistica in una serie di (più o meno reali) pianosequenza. Che contribuisce il film a renderlo anche più teatrale, a mostrare tutto il talento di attori magistrali, la perfetta coordinazione dei movimenti, e facendoci più volte concentrare sul party più che sul cadavere, diventando un vero e proprio affresco borghese, una critica alle élite e ai rampolli, i “nuovi americani”, una fiera delle vanità in cui tutti si prendono in giro e competono. C’è il manipolatore, c’è la zia chiassosa e nutrita di luoghi comuni, c’è il professore-filosofo impegnato in una sfida di intelletto e astuzia non dichiarata con Brandon, c’è Janet che s’inscrive in un secondo triangolo con Kenneth e il defunto David al vertice, c’è la donna di casa che è una macchietta sempreverde e imperitura. Una mimesis aristotelica degna del suo nome, ma nel segno di una sapiente regia consapevole dei mezzi cinematografici e del suo linguaggio. Se si considera che il soggetto è ispirato al fatto di cronaca nera del ’24, che ha visto Nathan Freudenthal Leopold Jr. e Richard A. Loeb uccidere un bambino per il semplice gusto di compiere il delitto perfetto, è quanto mai palese che Nodo alla gola non è solo un capolavoro del cinema giallo, sbrigliato dagli schemi, ma anche un impietoso affresco dell’alta società americana e dei salotti newyorkesi. Come se quel Rope del titolo originale, ossia la corda usata per strangolare, fosse la corda stretta alla gola dell’America.

Nodo alla gola Ottimo restauro da parte della Universal che, più di sessant’anni dopo il debutto del film, lo riporta in sala e in DVD e Blu-ray con una qualità eccellente, una visione in grado di rendere giustizia alle finezze sceniche (tra cui il cyclorama, un dettagliato allestimento dello skyline di New York oltre la parete a vetrata) e soprattutto alla pista audio, nella quale una volta alcuni brani e canzoni passavano di sottofondo, trascurati. Torna a rivivere un capolavoro che, speriamo, continuerà a richiamare spettatori come nella serata di questa nostra visione.

9

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