Recensione Motel Woodstock

Le “vibrazioni positive” di Ang Lee risultano piacevoli, ma dispersive

Recensione Motel Woodstock
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Com'è normale che sia, i revival del '68 e di tutto quello che è girato attorno ai movimenti giovanili di quarant'anni fa continuano senza sosta in questi giorni, e una pellicola che centrasse la sua attenzione sullo storico concerto di Woodstock che ebbe luogo nel 1969 era più che auspicabile. Quello che non ci si poteva certo aspettare era che a confezionarla fosse nientemeno che Ang Lee, il poliedrico (e pluripremiato) regista taiwanese sempre al lavoro sui progetti più disparati. Con alterne fortune, c'è da dire, e trovandosi meglio a suo agio, probabilmente, con vicende intimistiche come Mangiare bere uomo donna o il celebre I segreti di Brokeback Mountain. E anche Motel Woodstock, nonostante il setting così apparentemente 'chiassoso' come può esserlo solo uno dei più grandi happening della storia, è in realtà una storia che guarda ai sentimenti e all'interiorità dei suoi protagonisti, più che alla passione per la musica.

L'anno in cui mezzo milione di persone si riunirono in nome del “Love & Peace”

Il 1969 è uno degli anni più ricchi di avvenimenti importanti del ventesimo secolo: un anno denso di lotte politiche, studentesche e sociali in tutto il mondo, ma anche quello in cui l'uomo mette per la prima volta piede sulla Luna, e in cui la musica, tramite tutta una serie di importanti concerti pubblici, riesce ad accomunare decine, centinaia di migliaia di persone alla volta. In un'America in cui non si è ancora spenta l'eco del disastro Vietnam e in cui i giovani di tutte le classi sociali non riescono a ricavarsi uno spazio tutto loro, concerti come quello dei Rolling Stones ad Hyde Park o quello di Woodstock segnano un'intera generazione e continuano tutt'oggi a far parlare di sé. Motel Woodstock è la storia di uno di questi ragazzi, Elliot Tiber (Demetri Martin), e di come sia riuscito, senza forse neanche rendersene conto, ad organizzare uno dei più grandi concerti della storia.
Tiber era un tranquillo ragazzo della provincia newyorkese, dal discreto talento artistico e dalle latenti tendenze omosessuali, che spinto dalla volontà di aiutare i genitori a riportare in auge il malandato alberghetto di famiglia, si imbarca -con notevole spirito di iniziativa e un discreto fiuto per gli affari- nell'impresa di ospitare nella sua cittadina un festival di musica hippie. Questo festival, rimbalzato da una parte all'altra della contea di New York, approda così infine nella periferica Bethel, dove Tiber, in qualità di Presidente della Camera di Commercio, riesce ad avere i permessi necessari per organizzare l'evento, che si terrà nella tenuta di un possidente terriero della zona, Max Yasgur (Eugene Levy). E qui inizia la leggenda di Woodstock.

Una biografia “particolare”...

Motel Woodstock è tratto dall'autobiografia dello stesso Elliot Tiber, che negli anni successivi al concerto si è fatto strada nell'ambito della letteratura e della sceneggiatura. La sua vicenda, già ampiamente romanzata nel libro (almeno a detta di molti 'testimoni' dell'epoca), appare ora sul grande schermo dipinta dalle abili mani di Lee, che alterna momenti di commediola quasi frivola alla That '70s Show ad altri decisamente più introspettivi: il tutto mediato dall'evento corale che si va svolgendo, che tuttavia appare sfumato come in una sorta di sogno lisergico. Del concerto vero e proprio, difatti, nel film non v'è traccia: non sentiremo suonare una sola, vera, nota, né vedremo alcun big del rock inneggiare alla Love & Peace da sopra un palco. Tutto ciò è causato, in parte, dal fatto che lo stesso protagonista della vicenda non abbia presenziato al concerto, impegnato com'era con l'organizzazione e la gestione dell'albergo, e dato anche il fatto che l'unico giorno in cui si era liberato dagli impegni per assistervi abbia invece preferito mischiarsi alla folla di hippie sulla strada, vivendo il proprio happening personale, la propria liberazione interiore, gustando la libertà a due passi da casa propria. Ma la mancanza del concerto vero e proprio è anche una scelta, da parte del regista, che decide di concentrarsi sul significato della manifestazione, più che sul contenuto.
Lee mischia realtà e fantasia, immagini da cartolina a dati drammaticamente reali, e non si fa scrupolo di usare ed abusare, a proprio uso e consumo, dell'estetica hippie e del largo proliferare di stupefacenti che fece quasi da sfondo alla vicenda. Ché la musica era solo un elemento accessorio, per molti, secondo la visuale di Lee e degli altri autori del progetto (“Se vi ricordate Woodstock vuol dire che non ci siete mai stati!” recita uno degli slogan del film); quello che importava era il vero senso di comunità, amicizia, fratellanza che si respirava, a pieni polmoni, in quei giorni. L'incarnazione dell'ottimismo incondizionato, un'utopia che prende deliberatamente forma per poi scomparire dopo quattro giorni.

...per un contesto particolarissimo.

Fin qui, il messaggio di Lee appare chiaro, e anche interessante, al di là della condivisione o meno di questi ideali che pure hanno segnato una generazione.
Quello che non convince è la formula: Motel Woodstock non è un documentario, perché gli eventi appaiono chiaramente e a più mani romanzati; non è una commedia, nonostante i vari sprazzi di umorismo e situazioni surreali (non particolarmente riusciti, tra l'altro); non è, infine, neanche una vera biografia. In parte per la già citata tendenza alla fiction piuttosto che al documentarismo, in parte perché il protagonista della vicenda, Tiber, non viene poi inquadrato, nel suo carattere, nella sua personalità e nella sua trasformazione, in ben 120 minuti di presenza quasi costante sullo schermo, quanto invece lo sono i suoi genitori in una manciata di scene altamente significative. Le figure più interessanti del film, difatti, non sono i giovani: né il protagonista (del quale si accenna solamente alla propria tendenza omosessuale, che pure sarebbe potuta/dovuta essere uno dei cardini della sua vicenda personale, in un ambiente talmente variegato come quello proposto da questa storia), né la figura della sorella -appena abbozzata- o quella del manager hippie Michael Lang (Jonathan Groff) o del reduce Billy (Emile Hirsch), che avrebbero meritato spazi ben più ampi.
I personaggi che rubano la scena, stranamente, sono gli adulti: Lee vi si concentra con un occhio che guarda in prospettiva, essendo forse, ora, alla loro età e vedendo ai ragazzi di quella generazione (che è anche la sua) con occhio contemporaneamente stupito e trasognante.
Come il poliziotto in moto che Elliot incontra sulla strada per il concerto, o come Max Yasgur (Eugene Levy) o ancora gli stessi genitori del protagonista, magistralmente interpretati da Imelda Staunton e Henry Goodman, due personaggi autentici e davvero interessanti, anche al di là del contesto della storia. Ci sarebbe da chiedersi se davvero fossero dei personaggi così complessi anche nella realtà. Interessante, infine, anche se forse un po' troppo di maniera, il personaggio del transessuale Vilma, interpretato da Liev Schreiber: un'altra maschera che Lee avrebbe dovuto usare più sapientemente per condire la sua storia.

Motel Woodstock Motel Woodstock è sicuramente un'opera interessante. Sono presenti gran parte degli elementi cari al regista, sia nella trama che nella tecnica (chiari i richiami, più o meno indiretti, alle tecniche registiche e di divisione delle scene utilizzati in film seppur molto diversi fra loro come i suoi lavori precedenti). La vicenda scorre bene sullo schermo ed è significativa, ma non si sofferma adeguatamente su certuni dettagli o personaggi, pur importanti, andando a posarsi su elementi che in teoria dovrebbero essere solo di contorno, e andavano esplorati, magari, in altre sedi. E', in sostanza, un film dispersivo, con personaggi non sempre sfruttati nel modo più adatto e che rischia di tradire le aspettative del suo pubblico tra un trip dei protagonisti e l'altro. Ma rimane comunque una testimonianza vibrante e positiva delle good vibrations di Woodstock, di cui si fa alfiere e promotore.

6

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