Recensione Mio Fratello E' Figlio Unico

Essere fascista e/o comunista negli anni '60

Recensione Mio Fratello E' Figlio Unico
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Spaccato di vita di due fratelli: in casa uno dei due, il più grande, ottiene senza alcuno sforzo l'appoggio e l'affetto incondizionato della madre, l'altro è vessato un po' da tutti, sorella compresa. Hanno idee politiche diverse. Guardacaso, entrambi sono interessati alla stessa ragazza. A tutt'oggi, cosa succederebbe? Niente di che: al preferito, la macchina nuova a diciotto anni, all'altro, la vecchia Panda del nonno, che tanto ormai è troppo vecchio per guidare. Alle elezioni, due crocette su due simboli un po' diversi, ma neanche troppo, non sia mai che si prenda una posizione chiara, e non se ne parla più per qualche anno, posto che se ne sia parlato in qualche occasione. Per quanto riguarda la ragazza, ovviamente cadrà nelle braccia del belloccio menefreghista, per poi farsi consolare in lacrime dal fratello avanzato, così dolce, così gentile, salvo ritornare a disposizione non appena l'altro ha qualche ora libera. Anche negli anni '60 andava così?
Dall'incipit non sembrerebbe proprio. Troviamo infatti il nostro Antonio, detto Accio "per motivi che non ti sto a spiegare", nientemeno che in seminario, dove da bravo studente modello si diletta di storia e latino, sordo alle asserzioni un po' blasfeme del fratello, che vorrebbe convincerlo ad abbandonare la spiritualità, "che tanto non è vero niente". Ma ciò che non può la logica, può la natura umana: irretito dalla conturbante effigie di una famosa soubrette, lasciatagli in dono dallo stesso Manrico, il piccolo Accio incorrerà in peccato mortale, con l'inevitabile conseguenza di una crisi di coscienza. Tornato tra le mura domestiche, l'ex aspirante sacerdote incontrerà immediatamente le prime difficoltà: non solo dovrà convincere il padre ad iscriverlo al liceo classico anziché all'istituto per geometri, ma sarà costretto ad adattarsi a dormire in corridoio. D'altronde non è che la situazione sia delle migliori: la casa cade a pezzi, il padre deve sbarcare il lunario con uno stipendio da operaio, la madre aiuta come può con qualche lavoretto, e nessuno sembra particolarmente contento di averlo tra i piedi. Tranne il venditore di tovaglie Mario Negri, sempre prodigo di accorate, sebbene po' confuse, lezioni di storia contemporanea, fervente sostenitore del Duce, che a suo dire avrebbe inventato l'architettura razionalista ("E sai perché si chiama razionalista?" "Perché ha ragione?" "Ecco, bravo!"), ma che soprattutto sarebbe il primo ad obbedire al fondamentale dettame: non tradire l'amico, non tradire la patria, non tradire l'idea ("Ma la cosa più importante è non tradire l'idea!" "Perché?" "Perché l'idea è l'idea!"). Nessuna sorpresa, quindi, se in poco tempo nel giovane Accio matura la convinzione di iscriversi al partito fascista, ora M.S.I., nonostante la disapprovazione della famiglia tutta, dichiaratamente schierata dalla parte degli antagonisti. E così, tra qualche azione più goliardica che dimostrativa di Accio & Co. e i discorsi accorati dell'operaio Manrico, il precario equilibrio si mantiene fino all'entrata in scena di lei, Francesca, compagna di sezione del bel comunista che non tarderà a conquistare, senza alcuna volontarietà, anche il fratello. L'amore, le dissonanze di un'ideologia in fondo non sua, la figura carismatica del fratello, o semplicemente la crescita e una nuova consapevolezza, porteranno Accio ad allontanarsi dall'ambiente neofascista, e ad affacciarsi, non senza una certa disillusione, su una diversa visione della vita e della società, forse meno schematica e categorizzata, ma anche più pragmatica e fattiva.

E' un affresco veritiero e disincantato quello che ci propone il film di Luchetti, basato sul romanzo autobiografico di Antonio Pennacchi "Il Fasciocomunista", non solo su una società, quella italiana dell'ultimo dopoguerra, notoriamente piena di contraddizioni e deliri a tutt'oggi dimenticati o deliberatamente ignorati, ma soprattutto sul difficile percorso di crescita a cui è (o dovrebbe essere) chiamato chiunque si affacci all'età adulta. E c'è da dire che Accio non è uno che si risparmia, che si lascia vivere, tanto che sembra inadatto a qualsiasi ambiente, persino a quelli in cui si vuole inserire a viva forza. Troppo integerrimo perfino per il seminario, scomodo all'interno del partito, del quale sembra essere l'unico a notare il messaggio raffazzonato, l'inadeguatezza nella risposta ai bisogni del proprio ceto sociale, l'ipocrisia gerarchica che delega l'azione a giovani fracassoni senza mai scomodare i piani alti, ma anche il solo a riuscire a palesare, una volta passato "dall'altra parte", che la pretesa comunista di "defascistizzare" le parole dell'Inno alla Gioia suoni un po' ridicola, se non pretestuosa. Senz'altro Accio è un ragazzo problematico, con se stesso, con gli altri, con il mondo, ma sono forse il suo rifiuto di accontentarsi delle spiegazioni spicciole, il suo indagare gli aspetti più complessi e meno immediati di ogni situazione, la sua disinvoltura nell'ammettere candidamente di essere, lui con la sua famiglia, "uno degli ultimi", a renderlo l'emblema di quell'onestà intellettuale e sociale che, più di tanti comizi, dibattiti e sbandieramento di ideali altisonanti, è in grado di cambiare veramente qualcosa e di fare la propria parte, seppur in sordina, senza alcuna folla adorante al seguito. Ottimamente incastonate nella vicenda sono anche le figure dei diversi comprimari, funzionali a rendere più colorito e profondo lo spaccato sociale che fa da sfondo ai rovelli del protagonista: e così troviamo una Francesca innamorata ma non istupidita, coraggiosa e forse più anticonformista e rivoluzionaria dell'eroe Manrico, una madre, interpretata magistralmente dalla bravissima Angela Finocchiaro, un po' spaesata dai propri nuovi diritti di votante, ma determinata a farne il miglior uso possibile, una coppia Mario/Bella in cui alla di lui fede in una società dittatoriale, tradizionale e maschia, corrisponde la ricerca della moglie di tutt'altro tipo di virilità, quella giovane e ingenua di Accio. Paradossalmente, sono il personaggio e il cammino personale del fratello, eterno antagonista ma anche imprescindibile punto di riferimento, ad uscirne a tratti trascurati in alcuni degli episodi forse più significativi, come l'inesorabile coinvolgimento nella lotta armata e la latitanza, che avrebbero meritato una trattazione meno sbrigativa e che non demandasse allo spettatore la risoluzione di numerosi passaggi.

Mio Fratello E' Figlio Unico Mio Fratello E’ Figlio Unico è una pellicola che merita sicuramente la visione. Non si può restare indifferenti alla caparbietà e all’intelligenza di Accio, un personaggio che resta sempre e comunque un buono, malgrado i continui tentativi di dimostrare il contrario. E non si possono ignorare nemmeno le contraddizioni e i vicoli ciechi in cui incappano gli altri protagonisti della vicenda, specchio di un contesto sociale disordinato e confuso, nel quale i punti di riferimento latitano e la tanto agognata riscossa si affida alternativamente a sterili vestigia del passato e a tristemente inevitabili eccessi di violenza. Quantomeno per avere un’idea, sebbene parziale, di cosa ha portato l’Italia ad essere quello che è.

7

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