Recensione Michael Clayton

Sono Shiva, il dio della morte!

Recensione Michael Clayton
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Che sia un accadimento volontario o no, ognuno nella propria esistenza si ritaglia un ruolo, si costruisce un personaggio. E’ innegabile che gli altri esseri umani contribuiscano in maniera pesante a questo processo, e si potrebbe perfino dire, andando a ripescare il sempre attuale Pirandello, che per ognuna delle nostre conoscenze, dalle più complete alle più superficiali, la nostra immagine cambi, si plasmi a seconda delle esigenze altrui e delle effimere circostanze, per rispondere a quello che il mondo vuole che siamo. E’ un compromesso inevitabile del vivere comune. E per questo lo accettiamo. Ma, abituati da sempre a non sentirci mai chiedere chi siamo, spesso per paura di una risposta non conforme alle aspettative, forse abbiamo disimparato anche ad indagare noi stessi, nel segreto della nostra mente e, ancora più in profondità, della nostra coscienza. Però capita, ed è senz’altro un bene, che attraverso la spessa e ovattata coltre dell’ipocrisia e dell’autocompatimento si faccia strada un pensiero, il pensiero che, qualunque sia il copione che abbiamo accettato di recitare, possiamo ancora riappropriarci della nostra vera identità, uscire dal personaggio e ridiventare persone.

Cosa succede

Il ruolo di Michael Clayton è quello del netturbino. Dal trailer della pellicola lo avreste detto un brillante avvocato? In effetti lavora per il prestigioso Studio Associato Kenner, Bach & Ledeen, ma i suoi compiti non implicano preparare una difesa, presenziare in aula, arringare una giuria. Lui, piuttosto, si occupa di tamponare, insabbiare, insomma risolvere tutti quei problemi un po’ scomodi che una rinomata cerchia di avvocati non può permettersi di affrontare. Ma stavolta il problema è meno arginabile del solito, perché è proprio uno dei soci anziani dello studio ad, apparentemente, dar fuori di matto. E per un motivo alquanto inusuale per coloro che intraprendono la carriera legale, ovvero uno scrupolo di coscienza. Arthur Edens ha infatti curato per anni il caso U-North, potente multinazionale farmaceutica accusata di aver prodotto e commercializzato un defogliante potenzialmente cancerogeno per l’uomo, finchè un giorno, da un momento all’altro, sembra non starci più. E lo dimostra spogliandosi completamente nudo in aula durante un’udienza preliminare, dichiarando il suo amore ad una giovane querelante. Complice la sua nota instabilità psichica, che teneva sedata grazie ad un cocktail di farmaci, tutti attribuiscono l’insano gesto ad una mera sospensione della cura, ed incaricano il nostro Michael di metterci una pezza. E sarà qui, in un comando di polizia semisepolto nella neve e sferzato da un’impietosa tempesta invernale, che Arthur cercherà comprensione e aiuto nell’amico, denunciando la doppiezza del sistema in cui ha da sempre operato e ribadendo il proprio intento ad uscirne, mettendosi, perlomeno in questa occasione in cui gliene è data l’opportunità, dalla parte della verità. E qui per Michael iniziano i problemi: da una parte, nonostante tutte le buone intenzioni, è difficile credere alla coerenza delle parole dell’amico, evidentemente in stato confusionale, dall’altra il compito che gli è stato affidato è esplicitamente quello di far rientrare l’emergenza, con qualunque mezzo, e quindi schierarsi dalla parte della momentanea minaccia è fuori discussione. Vorrebbe dire mettersi contro lo studio tutto, cosa che non può permettersi di fare a fronte del proprio consistente accumulo di debiti, collezionati tra bische clandestine, progetti imprenditoriali falliti e un fratello scapestrato. Però, nonostante tutte le componenti razionali e soprattutto conservative sconsiglino la cosa, l’affetto e la stima professionale per Arthur scateneranno anche in Michael l’urgenza di andare fino in fondo alla faccenda, ovviamente utilizzando le capacità e i mezzi che hanno fatto di lui l’avvocato meno appariscente ma forse più indispensabile di tutta New York.

Come succede

Ma intendiamoci da subito: quello di Michael Clayton tutto è tranne che un cammino di redenzione nel senso classico del termine. Nessuno dei pilastri costituitivi della sua esistenza verrà demolito o anche solo reso instabile. Nessun plateale voltafaccia, di quelli teatrali, coadiuvati da un bel discorso moralista, è in agguato. Nessuna denuncia pubblica, nessuno scardinamento del potere costituito. Perfino l’indagine di Michael si muove all’interno di binari che, perlomeno per quello che lo riguarda, hanno del lecito, o comunque dell’ordinario. Al termine della pellicola Michael Clayton è ancora Michael Clayton, lo stesso che è disposto a trovare una scappatoia al riccone con l’ammiraglia che si dà alla fuga senza prestare soccorso alla persona che ha investito, lo stesso che, nonostante i fallimenti, non rinuncia al vizio del gioco. Michael Clayton è un essere molto umano che sa che per tirare avanti, per assicurare un futuro alle persone a cui vuole bene, non ha altra scelta se non quella di continuare a fare quello che sa fare meglio, di rimanere parte del meccanismo e anzi di esserne uno dei motori più attivi. Semplicemente, quando la scelta tra la cosa giusta e la cosa sbagliata non costava troppi sacrifici, ha optato per la cosa giusta. Un gesto che potrebbe fare chiunque di noi, e senza nemmeno diventare il protagonista di un film. Un episodio non particolarmente meritevole, un atto che anzi dovrebbe essere dovuto, diventa una piccola soddisfazione, un’occasione per addormentarsi con la sensazione di aver fatto quello che era necessario, nei limiti del consentito. Per questo ci piace Michael Clayton, perché ci fa sentire un po’ speciali nella nostra normalità, ci racconta che anche una persona qualunque, senza particolari elevatezze etiche e senza il coraggio o la possibilità di condurre una guerra aperta può, nel proprio limitato spazio vitale, fare la differenza, seppur solo per una volta. Certo dobbiamo averne l’occasione, e al nostro ancora una volta bravo George Clooney questa occasione l’hanno fornita un ottimo Tom Wilkinson, ormai garanzia di un’interpretazione intensa e appassionata, e un’impeccabile Tilda Swinton, già avvezza ai ruoli da cattiva, ma che qui dà vita a un personaggio davvero irrimediabilmente odioso, perché, lungi dall’essere soltanto un villain affascinante ed impeccabile, ci palesa l’altro lato, quello meno seducente, della malvagità, in tutta la propria bassezza e trivialità.

Michael Clayton Michael Clayton non è esente da difetti. Non lo è il personaggio, non lo è la pellicola. L’azione non è trascinante, il che è comprensibile in un'affaire tra avvocati, ma il fatto che l’accurata lentezza della narrazione si perda proprio nei momenti in cui sarebbe stato più necessario ricapitolare i fatti non giova alla fruibilità del film, la cui maggior pecca è probabilmente però quella di affidarsi eccessivamente al carisma e alla capacità interpretativa dei protagonisti. Che in effetti svolgono un lavoro impeccabile, specie nelle lunghe sequenze introspettive (titoli di coda in primis) in cui la mimica facciale la fa da padrona, ma che se spalleggiati da una sceneggiatura meno dispersiva e maggiormente puntuale sarebbero stati ancor più valorizzati.

6.5

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