Memorie di un assassino, recensione del film del premio Oscar Bong Joon-ho

Uscito originariamente nel 2003, il secondo lungometraggio di Bong Joon-ho arriva finalmente anche nelle sale cinematografiche italiane.

Memorie di un assassino, recensione del film del premio Oscar Bong Joon-ho
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È fin troppo facile parlare di un film come Memorie di un assassino a febbraio 2020, con i diciassette anni di ritardo rispetto alla sua uscita originale dovuti allo sfasamento temporale della distribuzione italiana. Adesso il nome di Bong Joon-ho (così come quello di Song Kang-ho) è sulla bocca di tutti, dal grande pubblico generalista ai cinefili più incalliti, ed è associato a premi importanti come Oscar, Palma d'Oro (la prima in assoluto per la Corea del Sud), e a prodotti di spessore come The Host e Snowpiercer, Parasite e Madre.

Memorie di un assassino

Nel 2003 le cose erano molto diverse, non solo per Bong ma per l'industria coreana tutta: il successo e i premi internazionali importanti ottenuti nei due decenni successivi grazie ai vari Park Chan-wook, Kim Ji-woon, Lee Chang-dong (che nel 1997 lanciava la futura star Song Kang-ho in Green Fish) e Kim Ki-duk erano ancora lontanissimi. Il regista classe 1969 con occhiali rettangolari dalle lenti sottili aveva all'attivo un solo film: Barking Dogs Never Bite (o Peullandaseu-ui gae per gli amici coreani) uscito nel 2000 e ancora molto acerbo, ma nel quale già si poteva intravedere lo stile che si sarebbe formato di lì a poco. Pensava più a studiare il cinema di Hou Hsiao-hsien e Shohei Imamura anziché godersi i complimenti di Quentin Tarantino (che lo avrebbe citato due volte nella sua lista dei film preferiti dal 1992, con Memories e The Host).

Oggi che invece è cambiato tutto, tessere le lodi di un film come Memorie di un assassino - eletto il migliore del secolo dall'industria coreana - è quasi barare. C'era già chi lo decantava allora senza nessuna assicurazione sul futuro successo, e chi per primo ne ha assimilato i concetti per rileggerli in chiave occidentale (Zodiac di David Fincher viene da qui, per molti aspetti).
Ma il grande pubblico italiano che lo scoprirà per la prima volta in assoluto potrebbe non sapere cosa aspettarsi dal film in uscita il 13 febbraio, oppure non coglierne la grande importanza storica e filmica. Proviamo a spiegare tutto.

Il progresso che irrompe

Il successo ottenuto dal film e il modo in cui fu capace di superare i propri confini geografici e arrivare agli spettatori di tutto il mondo si può riscontrare nella geniale crasi fra occidente e oriente. Ci sono i serial killer, i detective, i litigi fra i detective, i crimini sessuali, gli interrogatori violenti e gli appassionanti inseguimenti notturni provenienti da un certo filone specifico del cinema americano (citato espressamente con Brivido caldo di Lawrence Kasdan, uscito da poco nell'ambientazione del film). Eppure tutte le tipiche formule del thriller investigativo qui vengono assimilate e riproposte per le sensibilità dell'industria e della cultura coreana fin dalla scena d'apertura, che include il ritrovamento di un cadavere da parte di un agente di polizia impacciato e un bambino autistico. Già questa è una formula che destabilizza lo sguardo occidentale, abituato com'è a canoni ed elementi standardizzati.
Nella sua rilettura del thriller, equiparabile a quella che Roman Polanski apportò al noir con Chinatown (i due film sono legati anche attraverso la tematica del fallimento) Bong Joon-ho fa dell'incongruenza e del disordine totale gli ingredienti principali del suo racconto, che in questo modo assurge a critica sociale e satira.

È il 1986 e la Corea del Sud è governata dalla dittatura militare, ogni cosa è in disordine e il lavoro della polizia è a dir poco carente. La parodia di uno Stato diventa la parodia di un genere, con l'arrivo nella piccola cittadina al centro della vicenda di un detective della omicidi della capitale Seul, che ribalta totalmente lo status quo. È la modernità trapiantata nel retrogrado, il progressismo messo di fronte al conservatorismo, ma anche - da un punto di vista della filologia cinematografica - l'efficienza del grande cinema occidentale chiamata a dare lustro al piccolo cinema coreano.

Ma è solo una trappola: Bong, con uno sguardo nichilista atroce che non ammette repliche, si diverte a mettere in discussione le abilità del detective (e quindi i mezzi del Grande Cinema), che troverà non poche difficoltà nell'ambiente ostile di una dittatura ormai giunta al capolinea e animata da colpi di coda ancora più duri e repressivi.
Le prime elezioni democratiche, dopo anni di sanguinose rivolte, arriveranno infatti nell'87, un anno dopo gli eventi del film. E in questo caos quasi primordiale le certezze dell'uomo traballano, con i due agenti protagonisti (Song Kang-ho e Kim Sang-kyung) che saranno costretti a guardare l'uno nell'anima dell'altro, in un continuo gioco di ribaltamento.

Il fallimento

L'aspetto originale e unico di Memorie di un assassino è il modo in cui i protagonisti, talmente dentro i sistemi brutali del Governo per il quale sono al servizio, risultano del tutto inconsapevoli alle ingiustizie che continuano a perpetrare ai danni dei loro compatrioti, che accusano sempre erroneamente. In questo senso fra i precedenti potremmo citare La notte dei generali di Anatole Litvak, con Peter O'Toole nei panni di un ufficiale di polizia devoto a Hitler che si ritrova a indagare fra i ranghi delle alte sfere naziste per l'omicidio di una prostituta, e in parte anche La calda notte dell'Ispettore Tibbs di Norman Jewison, in cui un poliziotto bigotto è costretto a lavorare con un detective afroamericano per risolvere un crimine nel Mississippi degli anni ‘60.
Ma a differenza di questi due titoli l'interesse principale di Memorie di un assassino non è tanto quello di risolvere un mistero (ricordiamo che, all'epoca della realizzazione del film, gli omicidi su cui l'opera si basò non erano ancora stati risolti, dato che il vero serial killer è stato incastrato solo nell'estate 2019) quanto quello di dipingere uno spaccato una società in evoluzione, a cavallo fra la fine di una dittatura e l'inizio di qualcosa di nuovo.

Bong è quasi riluttante a lasciarsi andare a epifanie, risposte soddisfacenti per lo spettatore e chiose definitive per i suoi personaggi, e a differenza di Roman Polanski (per ricollegarci alla precedente menzione del noir con Jack Nicholson), che per quanto privo di speranza e cupissimo un epilogo al suo Jake Gittes lo concedeva, il coreano elabora un finale sospeso e malinconico, a metà fra il ricordo e l'onirico. Come se ogni possibile realizzazione possa arrivare da un altro tempo, da un'altra realtà, una - quella del 2003 - che abbia un suo senso perché finalmente libera. Libera dall'oppressione, libera di riflettere.

Memorie di un assassino All'epoca del suo secondo lungometraggio, l'allora sconosciuto e oggi acclamato in tutto il mondo Bong Joon-ho firmava un thriller epocale che studia l'evoluzione dei suoi protagonisti detective alle prese non tanto con la caccia di un misterioso serial killer, quanto con le fasi finali di una dittatura militare e del caos che faceva ribollire città e anime. Visto oggi, diciassette anni dopo, Memorie di un assassino è ancora più potente nella sua celebrazione dell'importanza del ricordo, forse l'unico mezzo a disposizione dell'uomo per mettere a fuoco un'epoca e i suoi sentimenti.

9.5

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