Recensione Man Down

Nel racconto del trauma di un ex marine provato da un incidente nella mente e non nel corpo, Dito Montiel analizza -purtroppo con qualche sbavatura- i demoni che si celano dietro un reduce di guerra.

Recensione Man Down
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Il corpo dei Marine non è solo un organo di difesa nazionale, ma quasi un culto, una religione: i giovani che si arruolano sono sottoposti ad estenuanti allenamenti e orari massacranti, ma soprattutto vengono addestrati a considerare i propri colleghi come fratelli. Unità, senso di protezione: sono queste le cose che molto spesso riescono a salvare un marine dalla morte in combattimento. Per Gabriel Drummer (Shia LaBeouf) questo senso di appartenenza si rispecchia tutto nel collega ed amico Devin (Jai Courtney) che dall'infanzia lo ha visto crescere, arruolarsi e partire per l'Afganistan - seguendolo ovunque, perfino in guerra. Tutto sembra perfetto, dalla naturalezza con cui Gabriel si occupa del figlio John al modo in cui si lascia accudire dalla moglie (Kate Mara) prima della partenza, ma la guerra cambia tutti e ti entra dentro. Succede anche a Gabriel, che in seguito ad un incidente si trova di fronte ad un suo superiore (Gary Oldman) a raccontare con l'orrore negli occhi e la distruzione nella mente quanto quella missione abbia sconvolto la sua vita. E poi Man Down, un termine militare che diventa un piccolo messaggio in codice tra padre e figlio, trasformatosi infine in un cinereo presagio dalla drammatica risoluzione.

America, we have a problem

È forse il più sentito tra tutta la sua filmografia, il sesto film di Dito Montiel: raccontare la guerra in Afganistan non è d'altronde cosa nuova per la cinematografia moderna, che ha sempre trovato nella parte bellica più recente della nostra storia del materiale di riflessione sfaccettato e dai molteplici punti di vista. Quello del regista si concentra sulla figura umana di Gabriel e sui suoi demoni, che lo avvolgono completamente fino a condizionarne tutte le azioni. Dietro Gabriel, una meccanica chiaramente fallata che esalta i soldati per poi fagocitarli in un sistema più forte di loro, rispedendoli in congedo insieme ai loro incubi senza dar loro gli strumenti per affrontarli. "America, we have a problem", sentenzia una scritta sul muro di un edificio ormai distrutto: un verdetto che non risparmia prigionieri. Il punto di vista di Montiel è vincente ed è esaltato in particolare dal twist mediano, ad unire una narrazione che rimane tripartita ed apparentemente staccata nella prima parte e dolorosamente chiara nella seconda. Meravigliosa l'interpretazione di Shia LaBeouf, che tiene in mano l'intera pellicola riuscendo a differenziare tre diversi stati mentali senza mai eccedere, ma riuscendo ad accompagnare lo spettatore in un viaggio emotivo potente, che commuove.

L'indecisione di Montiel condiziona il finale

Il vero problema arriva nella seconda parte del film, e non è rappresentato dagli attori o dalla messa in scena quanto invece dalle scelte di montaggio: dalla rivelazione del twist in poi il regista sceglie di insistere su determinate scene chiave o dialoghi importanti, creando un effetto di ripetizione disturbante che finisce per straniare lo spettatore. Si ha la sensazione che Dito Montiel abbia paura di non essere abbastanza chiaro, ed invece di lasciar intendere semplicemente, accompagnando lo spettatore suggerendo gli elementi che portano allo svelamento del colpo di scena, decide di prenderlo per mano accompagnandolo ossessivamente. Le scene più significative della vita di Gabriel passano sullo schermo più di una volta, una costruzione alternata costruisce la scena finale riproponendo di fatto un concetto già espresso: elementi che rovinano l'armonia iniziale, già di per se alterata - anche se in modo perdonabile - da una consistente quantità di cliché che tutti i film di questo genere si portano dietro. Un vero peccato, che va ad alterare il giudizio complessivo su una pellicola interessante, dagli ottimi spunti ed ottime interpretazioni.

Man Down Nel racconto del trauma di un ex marine provato da un incidente in guerra nella mente e non nel corpo, Dito Montiel analizza i demoni che si celano dietro un reduce (Shia LaBeouf) costretto in una gabbia mentale che finirà per condizionare la sua esistenza. Man Down è un tentativo interessante di cambiare prospettiva e si fregia di un’intensa interpretazione di Shia LaBeouf, ma qualche sbavatura nel montaggio finale e gli eccessivi cliché ne condizionano il giudizio finale.

6.5

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