È tutt'altro che un film perfetto Leaving Neverland di Dan Reed, eppure riesce perfettamente nel suo intento: amplificare in maniera inesorabile e virale la voce dei suoi due protagonisti, senza che nessuno intervenga per contraddirli o negare le loro pesantissime accuse.
Un film, per sua stessa natura, non può essere un processo, è però una visione soggettiva di una realtà: quella soggettività viene estremizzata nel genere documentario, in quanto ogni opera documentaristica fa riferimento a una data prospettiva (o più prospettive) allo scopo di supportare (o smontare) una data tesi.
Che quella di Dan Reed sia una verità particolarmente scomoda, poco importa: l'unica cosa importante è il risultato finale, e quello raggiunto da Leaving Neverland non può lasciare indifferenti, né in un senso né nell'altro.
Thriller
Lo stesso Jackson, in prima persona e/o tramite i suoi legati, e ovviamente anche tutti i suoi milioni di fan, hanno sempre negato categoricamente queste orribili storie, rovesciando la questione in maniera chiarissima: chiunque abbia mai parlato della star come di un pedofilo, è sempre stato un bugiardo speculatore interessato al denaro. E naturalmente, essendo l'accusato in questione Michael Jackson, ovvero uno dei più famosi, celebrati e importanti artisti del XX secolo (se non il più famoso, il più celebrato, il più importante), per la maggior parte del mondo ha sempre e comunque avuto ragione.
L'ha avuta proprio a partire da un punto di vista meramente mediatico, con la sua figura mitologica a fungere da assordante megafono: Michael Jackson ha donato milioni di dollari in beneficienza, Michael Jackson è amico dei bambini, Michael Jackson è una brava persona, Michael Jackson è una leggenda. In pratica i suoi accusatori non sono mai stati realmente in partita, perché in termini di percezione pubblica sono sempre partiti in svantaggio: il Dio della Musica contro diffamatori in cerca di notorietà.
Leaving Neverland, dando voce a Wade Robson e a James Safechuck, vuole riequilibrare lo scontro, fornendo agli accusatori un megafono abbastanza rumoroso da essere udito da tutti. Ed è innegabile che il film riesca nel suo intento: attraverso passaggi descrittivi estremamente dettagliati degli abusi sessuali subiti dai due protagonisti, alternati con audio privati e stacchi al montaggio di fotografie e fax di Jackson, i quasi 240 minuti dell'opera lasciano un segno nello spettatore, trasformando lo sfarzo fanciullesco del ranch californiano in un vero e proprio incubo psicologico. Eppure, paradossalmente, la grande forza del film finisce col diventare anche la sua unica debolezza.
Intimista e monocentrico
È evidente che l'obiettivo non sia quello, che a Dan Reed interessi solo ed esclusivamente la verità dei due protagonisti, ma in questo modo, a livello narrativo, l'opera resta monotematica e immobile. Soprattutto non sposta di un centimetro l'opinione individuale di ogni spettatore su Michael Jackson, Wade Robson, James Safechuck e il ranch Neverland: qualsiasi fosse l'idea che avevate su questi oscuri e controversi fatti prima di iniziare la visione del film, al momento dello scorrere dei titoli di coda scoprirete che sarà rimasta immutata.
Non serve credere né agli uni né agli altri per trovarle ugualmente sconvolgenti e raccapriccianti. E, nonostante siano molte le critiche che i fan di Michael Jackson potrebbero rivolgere a Robson, a Safechuck e soprattutto allo stesso Reed (non ultimo quella di opportunismo), a Leaving Neverland parlare di predatori sessuali, traumi psicologici e tecniche di abuso in termini di horror psicologico riesce molto bene.