Le avventure di Tintin: Il Segreto dell'Unicorno, recensione dell'opera firmata Steven Spielberg

La prima volta di Steven Spielberg nel mondo dell'animazione è già un successo: recensione de Le avventure di Tintin: Il Segreto dell'Unicorno.

Le avventure di Tintin: Il Segreto dell'Unicorno, recensione dell'opera firmata Steven Spielberg
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Nel 1929 un giovane illustratore belga dette inconsapevolmente vita a uno dei personaggi più longevi della storia dei fumetti per ragazzi. Il protagonista era un giovane reporter da un caratteristico ciuffo rosso di capelli che, accompagnato dal suo fedelissimo fox terrier bianco, viaggiava per tutta l'Unione Sovietica. Così nasce Tintin, divenuto un immediato successo di pubblico e un'icona per tantissimi bambini nel mondo. Quando ha disegnato le sue storie, Hergè (pseudonimo di Georges Remi, creato invertendo le iniziali del suo nome, RG appunto) non sapeva certo che tra questi giovani lettorii, con la fantasia galoppante e gli occhi trasognati, ci sarebbero stati anche due dei cineasti cult dell'ultimo (se non più) decennio: Steven Spielberg e Peter Jackson. "Tintin è un reporter pieno di entusiasmo, che da la caccia agli indizi di cui sono seminate le sue sorprendenti avventure", racconta Spielberg, "Ciò che lo rende così interessante è la continua ricerca della verità, anche se questo può portarlo su strade pericolose e cacciarlo in guai terribili... ma alla fine riesce sempre a cavarsela. Fin dalla prima volta che l'ho letto, ho sentito che Tintin e io eravamo destinati a una qualche collaborazione". Un pensiero che di certo è rimasto nella mente del regista per tantissimo tempo: già nel 1983 aveva infatti contattato Hergè, proponendogli un adattamento cinematografico del suo personaggio. L'artista belga sarebbe stato felice di affidargli i diritti, ma purtroppo è morto prima che i due si potessero incontrare. È stata sua moglie, Fanny Rodwell, a informare Spielberg che Hergè lo aveva scelto come unico regista che potesse fare un film basato sul suo lavoro. Moltissime ricerche e anni dopo, i tre libri più amati delle avventure di Tintin, Il granchio d'oro, Il segreto dell'Unicorno e Il tesoro di Rackham il rosso, sono stati rinchiusi in un'unica sceneggiatura e sono diventati il primo progetto di animazione 3D di Steven Spielberg: Le avventure di Tintin: il segreto dell'Unicorno.

Un mistero ai confini del mondo

Tintin (Jamie Bell) è un giovane e curioso reporter che divide il suo appartamento con il suo fidato amico a quattro zampe Milou. Affascinato dal modellino di un vascello in vendita presso una fiera, si ritrova immischiato in una storia ricca di segreti esplosivi. La nave nasconde infatti un mistero vecchio di secoli che Tintin non può di certo lasciarsi sfuggire. Peccato che sulle tracce del segreto dell'Unicorno, questo il nome dell'imbarcazione, ci sia anche Ivan Ivanovitch Sakharine (Daniel Craig), un diabolico cattivo convinto che il ragazzo gli abbia rubato un tesoro inestimabile legato alla maledizione della famiglia Haddock e del temibile pirata Red Rackham. Saranno il tempismo e l'arguzia a decidere il destino di questa avventura, che vedrà Tintin, accompagnato dall'improbabile Capitan Haddock (Andy Serkis), viaggiare in mezzo mondo in un inseguimento mozzafiato alla ricerca della chiave per risolvere il mistero dell'Unicorno e salvare le loro vite.

Tutta questione di “volumi”

Le avventure di Tintin: il segreto dell'Unicorno non è certo il primo film ad avvalersi della performance capture, eppure questa tecnologia continua a rimanere avvolta nel mistero. Sappiamo che si basa sui movimenti reali degli attori che vengono poi rimandati, con un'accurata operazione di rendering, a un computer che li trasforma in personaggi digitali. Nonostante la sua carriera ricca di blockbuster stellari, Steven Spielberg non si era mai avvicinato a questa tecnologia ed è stato solo grazie ai suggerimenti di Peter Jackson che la pellicola è stata affidata alle sapiente mani della Weta ed è diventata questo affascinante composto di tecnologia visiva. In teatro Spielberg ha lavorato continuamente per innovare e adeguare la tecnologia della performance capture al suo modo di raccontare grandi storie, incoraggiando tutto il team a trovare soluzioni nuove ai problemi visivi più pressanti. Lui e Jackson hanno finito col compiere una piccola rivoluzione con un nuovo sistema di doppiaggio della macchina virtuale, permettendo così al regista di avere un rapporto più tradizionale con gli attori durante tutte le riprese, mentre tutto viene comunque visto e strutturato nel mondo animato in 3D.
Completamente diverso dal tradizionale set in teatro, il processo di performance capture si svolge in quello che è chiamato Volume, ovvero un teatro bianco e grigio dove si arriva ad avere anche un numero pari a cento macchine da presa montate su una griglia fissata al soffitto, con una copertura a 360°, in grado di rendere lo spazio immediatamente tridimensionale. Nel Volume tutti gli attori e le attrezzature presenti nell'inquadratura hanno attaccati al corpo dei sensori riflettenti che vengono catturati dalle macchine da presa in meno di 1/60 di secondo e poi interpretati in immagini 3D. poi altre otto videocamere HD riprendono le performance naturali degli attori, che in seguito saranno usate come riferimento da parte degli animatori, per essere sicuri che ogni sorriso, smorfia ed emozione, vengano trasformati in creazione digitale. Con una macchina da presa virtuale, usando un dispositivo appena più grande del controller di un videogame con ad esso un monitor collegato, Spielberg era in grado di attraversare il Volume e guardare gli avatar degli attori interagire all'interno del film e costruire, così, in tempo reale la ripresa che voleva. Anche gli attori potevano osservarsi nei monitor posizionali nello studio, ricevendo un immediato feedback del proprio lavoro.
Inoltre Spielberg ha usato una innovazione di Weta: un procedimento conosciuto come performance capture basata sull'immagine facciale, usato per trasmettere le emozioni di Gollum ne Il Signore degli Anelli. Quando si usa questo sistema, gli attori indossano uno speciale casco attrezzato con una piccola macchina da presa puntata direttamente sui loro volti, permettendo una registrazione dei minimi movimenti degli occhi, delle labbra e dei muscoli facciali. Per Spielberg questo metteva l'accento esattamente dove lui voleva: sulla forza delle reali espressioni emotive che solo il volto umano può comunicare.
Una volta completato il lavoro con gli attori nel Volume, il team dell'animazione di Weta ha iniziato la rifinitura e il controllo del dettaglio, durato circa 18 mesi, di ognuna delle 1240 riprese del film, prima di arrivare al processo finale. È qui che i realizzatori hanno iniziato a lavorare con i temi visivi, le atmosfere e gli effetti della luce in ogni singola scena, determinando il look finale del film.

Impeccabile caos visivo

Da un perfezionista come Steven Spielberg non ci si sarebbe potuti aspettare un lavoro sommario e non accurato. Il regista ha infatti passato mesi studiando la conformazione emotiva e stilistica dei personaggi di Hergè e il modo in cui questi si sono evoluti nel corso degli anni, in modo da poter restituire un ritratto di Tintin rinnovato nelle forme comunicative ma non nei messaggi fondamentali. Una delle decisioni più importanti, che avrebbe influenzato tutto quello che sarebbe seguito, è stata quella di mantenere l'ambiente e la struttura della storia senza riferimenti temporali, in una storta di eterno universo noir, con ombre scure che spuntano in ogni angolo. In questo contesto estemporaneo ma realistico si inseriscono perfettamente i tratti puliti dello stile ligne claire di Hergè, fedele punto di riferimento per la ricostruzione poligonale CGI di oggetti e personaggi.
Niente in Le avventure di Tintin: il segreto dell'Unicorno sembra essere lasciato al caso e il risultato finale è piacevolmente impressionate. Un'esplosione di colori e rotondità che si susseguono con ritmo vibrante sullo schermo, creando un affascinante caos visivo che mantiene sempre alta l'attenzione dello spettatore. Divertente, moralista e ricco di momenti rubati da un thriller di altri tempi, il film si presenta come una storia d'azione alla Spielberg, dove entro breve si fa fatica a non confondere mentalmente l'irrefrenabile Tintin con il più antropologico Indiana Jones. Il regista ha affrontato il progetto come una qualsiasi sua altra pellicola non ponendosi limitazioni dovute all'animazione e, anzi, sfruttando i movimenti di macchina improbabili che questa permette. Scenografie che si fondono tra loro e entusiasmati piano-sequenza vengono resi ancora più magnifici da un 3D che esalta la maestria tecnica con cui il film è stato realizzato.

Le avventure di Tintin: il segreto dell'Unicorno Sarà anche un storia per ragazzi, ma Le avventure di Tintin: il segreto dell’Unicorno in realtà è una pellicola capace di intrattenere qualsiasi tipo di pubblico, con il suo essere semplicemente trasversale e un po’ retrò e il suo impeccabile comparto tecnico. E che dire degli attori nascosti dietro la computer grafica? Se è vero che per la maggior parte il film è costruito sul solido lavoro di animazione dei laboratori Weta, è innegabile che Jamie Bell e Andy Serkis hanno regalato ai propri personaggi un’umanità travolgente, che li rende immediatamente vicini a ogni tipo di pubblico, mostrando un uso della performance capture funzionale su molteplici livelli. E anche quel rivedere nei tratti di Sakharine e Haddock ritroviamo qualcosa di più familiare a Spielberg e Jackson che a Serkis e Craig forse rende questa pellicola un esperimento ancora più riuscito, perché prima di divertire gli spettatori, facendoli chissà appassionare a un personaggio forse un po’ passato di moda, ha emozionato e coinvolto quei due piccoli bambini oggi diventati registi cult.

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