La terra dell'abbastanza, la recensione: l'esordio dei gemelli D'Innocenzo

Uscito al cinema nel 2018, il dramma di borgata degli autori capitolini si è rivelato un folgorante coming of age duro, reale e malinconico.

La terra dell'abbastanza, la recensione: l'esordio dei gemelli D'Innocenzo
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Il campo lunghissimo della cinepresa ci trasporta già in apertura nella Terra dell'Abbastanza. Bastano un'alba, una vecchia Fiat Panda bianca, un paio di palazzine colorate, una parcheggio e due amici. Mirko e Manolo si conoscono da una vita e studiano insieme all'Alberghiero, con il sogno di diventare baristi. Ambizioni umili ma necessarie, volte al guadagno e non alla realizzazione personale, obiettivo che la periferia romana, il suo degrado e le problematiche economiche permettono solo in parte - e a chi vuole davvero - di perseguire. A loro, ancora adolescenti, bastano due risate e qualche pizzetta, anche se il germe di una malinconica condanna comincia già a insinuarsi nei loro progetti futuri. Sognano sapendo di sognare: un lavoro a tempo pieno, la libertà di poter scegliere chi essere, qualche cocktail, un bancone, la stanchezza; allontanarsi da quell'angolo di mondo così impietoso e difficile, scansando l'invitante richiamo della criminalità.

La realtà è purtroppo diversa e Mirko e Manolo cominciano a sperimentarla veramente quando investono un uomo tornando a casa, scegliendo di scappare senza prestargli soccorso perché terrorizzati. Trovano omertoso appoggio nel padre di Manolo, Danilo, che pochi giorni dopo rivela ai ragazzi che quell'incidente si è trasformato per loro in opportunità. Dice Danilo "pe' svordà", con accento e senso capitolino, ma questo cambiamento ha a che fare con mafia, pistole, omicidi. Ed è da qui che inizia il loro viaggio da adulti nella Terra dell'Abbastanza, costretti a crescere velocemente, a bivi impossibili, ad affrontare paure concrete e scegliere davvero chi essere, abbandonando ogni sogno fin qui coltivato per raccogliere quei pochi e malsani frutti che hanno seminato.

Il lento appassire delle speranze

Prima ancora di abbandonarsi alla fiaba nera italiana con il bellissimo Favolacce, i gemelli D'Innocenzo hanno debuttato nel 2018 con questa folgorante, drammatica e a suo modo magica storia di formazione e perdizione ambientata tra le strade di una periferia sospesa tra luci e ombre, criminalità e desideri. Hanno preso una difficile realtà sociale fatta di sacrifici e povertà e l'hanno adattata a uno stile narrativo e artistico profondamente personale, che guarda al cinema indipendente americano ma anche ai grandi autori nostrani come Matteo Garrone o al compianto Claudio Caligari.
La volontà anche dichiarata non è quella di criticare, denunciare il degrado o i pericoli del circondario capitolino. I D'Innocenzo mostrano prima di tutto dall'alto e dall'esterno questi ambienti decadenti dove è logico e adeguato accontentarsi, entrando poi nella psicologia dei protagonisti e spiegando le ripercussioni che questo ecosistema ha avuto e ha tutt'ora su più generazioni, padri, madri e figli. Lo fanno con delicatezza espositiva anche quando la scena si macchia di violenza. Non esasperano mai i contenuti e la messa in scena, senza lasciarsi trasportare dal convoglio nazionale fatto di troppi Gomorra e trovando invece un proprio binario artistico dedicato alla pulizia dettagliata dell'immagine, alla ricerca del dettaglio espressivo o ambientale, a un comparto cinematografico profondamente autoriale, caratteristico, ambizioso.

Sanno circondare Mirko, Manolo, Danilo (un ottimo Max Tortora) o Alessia (madre di Mirko, interpretata da Milena Mancini) di una loro precisa aura che li rende al contempo personaggi unici eppure tipici, dando modo allo spettatore di ragionare sulla giusta distanza empatica da prendere. La sceneggiatura puntualizzata al millimetro sa dare spazio emozionale a tutti i protagonisti, creando splendidi contrasti, dialoghi rabbiosi, momenti psicologicamente devastanti.

Ma sa anche essere mite e prendersi i suoi tempi, così da far maturare in modo chiaro e splendido una scena tra il più totale silenzio e nell'azione più basica insieme allo spettatore, lasciando dunque al pubblico la possibilità di interiorizzare, valutare e comprendere i sentimenti dei personaggi, il loro stato d'animo. Anche questa è concretezza: d'intenti, artistica, tematica.

La Terra dell'Abbastanza è un film che si fa piccolo prima di essere grande, un'implosione cinematografica tutta italiana acuta e lacerante, con un'onda d'urto capace di investire nella sua totalità il cinema inteso come valvola di sfogo. Lo si nota in tante cose ma soprattutto nella naturalezza e veridicità degli occhi dei due interpreti principali, Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano. Giovani, straordinari, in parte, con una chimica impressionante: attori incredibili che sanno essere magniloquenti anche solo con uno sguardo, con un "ahò", sfruttando appena qualche gesto.

In una scena, il Mirko di Olivetti è come catturato e incantato dai dolci di una pasticceria. Li guarda come se fossero oro, raccontati dalla luce scelta da Paolo Carnera e dai D'Innocenzo proprio come se fossero oggetti preziosi. Quella, così semplice eppure così studiata, è forse una delle sequenze più intense ed evocative del film, perché in quello sguardo e in quella magia c'è prima di tutto la realizzazione di quello che potrebbe essere un piccolo sogno (comprare dolci per la madre), poi l'innocenza perduta e per un attimo ritrovata, infine anche la fugace ed effimera ricompensa del crimine. Un frammento di un titolo eccezionale che da solo sintetizza e comunque sublima ogni carica artistica e concettuale dell'opera, racchiudendo in un momento quasi congelato nel tempo il senso stesso di una vita amara dove innamorarsi fugacemente di qualcosa di dolce è già abbastanza per sentirsi felici.

La Terra dell'Abbastanza La Terra dell'Abbastanza è un film che si fa piccolo prima di essere grande, un'implosione cinematografica tutta italiana acuta e lacerante, con un'onda d'urto capace di investire nella sua totalità il cinema inteso come valvola di sfogo. Racconta la difficile realtà sociale della periferia capitolina con uno stile sospeso nel tempo, quasi magico eppure crudo, vero, sfruttando nel farlo una messa in scena ragionata al millimetro, contrasti esistenziali e psicologici davvero forti e anche molti silenzi, la naturalezza e la bellezza dei gesti, anche quelli più sgraziati. Merito tanto di una concezione profondamente autoriale, ambiziosa e personale dei gemelli D'Innocenzo, quanto del supporto di un cast eccezionale, da Matteo Olivetti ad Andrea Carpenzano e passando anche per Max Tortora, tutti straordinari nel loro lavoro di caratterizzazione al cesello. Un'opera che sa come parlare, sa quando tacere e soprattutto sa quando impressionare.

8

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