Recensione La moglie del poliziotto

A otto anni di distanza da Il grande silenzio il regista tedesco Philip Gröning torna al cinema con un ambizioso progetto

Recensione La moglie del poliziotto
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A ben otto anni di distanza dall’apprezzato documentario Il grande silenzio, il regista tedesco Philip Gröning torna al cinema con un nuovo ed ambizioso progetto, questa volta nel campo della finzione: The Police Officer’s Wife, titolo in concorso alla 70° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha ricevuto un’accoglienza molto contrastata da parte della critica. Anche in questo film, del resto, Gröning sfida le usuali convenzioni cinematografiche per abbracciare una modalità narrativa che può risultare di scarsa fruibilità: frammentare il racconto - della durata complessiva di ben tre ore - in cinquantanove capitoli (scanditi da altrettanti cartelli di apertura e di chiusura) per costruire la storia mediante una serie di brevi sequenze, spesso scollegate fra loro o riassumibili in varie categorie; alcune di queste confluiscono in un modo o nell’altro nella vicenda principale, mentre le altre appaiono come digressioni di carattere simbolico o evocativo.

La “moglie del poliziotto” citata nel titolo è Christine Perkinger (Alexandra Finder), sposa amorevole dell’ufficiale della polizia tedesca Uwe (David Zimmerschied) e madre premurosa della piccola Clara (interpretata da una coppia di gemelline, Pia e Chiara Kleemann). Una famiglia comune, emblema perfetto di un’apparente serenità vissuta all’interno di un’elegante villetta in un placido paesino di provincia, le cui strade appaiono sempre pressoché deserte. Eppure, dietro le immagini di felicità di casa Perkinger, giorno dopo giorno trapela qualcos’altro: Uwe, marito e padre affettuoso, sembra mostrare un’inquietante tendenza all’autorità ed un atteggiamento ferocemente possessivo, a cui fanno seguito improvvisi ed inspiegabili scatti d’ira ed infine i primi accenni di violenza... una violenza che progressivamente arriva a prendere il sopravvento sulle azioni e sui comportamenti di Uwe, mentre sua moglie Christine, benché spaventata, decide di restargli accanto, anche se i lividi continuano ad accumularsi sul suo corpo sempre più martoriato, fino ad un punto di non ritorno...

The Police Officer’s Wife mostra dunque l’orrore che prende forma in un contesto assolutamente quotidiano, rappresentato attraverso uno stile da tipico cinema-verité (il minimalismo estremo, la scelta di soffermarsi sui dettagli più semplici e banali), con un effetto che pertanto dovrebbe risultare ancora più perturbante per lo spettatore. Eppure, la peculiare struttura del film finisce al contrario per raffreddare il coinvolgimento del pubblico: la prospettiva del cinema-verité, infatti, stride fortemente con le numerose sequenze stranianti e dal taglio quasi surreale (i personaggi che guardano verso la cinepresa intonando filastrocche per bambini; animali che si muovono nel bosco o per le strade notturne della cittadina; un uomo anziano seduto nella propria cucina), il cui significato rimane racchiuso in un ermetismo fine a se stesso che, alla lunga, scivola inesorabilmente nel manierismo. Il tema principale del film, ovvero il rapporto di reciproca e, per certi versi, malata interdipendenza tra vittima e carnefice (Christine supplica Uwe di non abbandonarla, perfino quando l’uomo si accanisce su di lei), si perde dunque in un susseguirsi di irritanti vezzi autoriali.

La moglie del poliziotto Philip Gröning, il regista del documentario Il grande silenzio, affronta il tema della violenza domestica in un film ermetico che finisce per sfociare in un irritante manierismo, attraverso una struttura frammentaria in base alla quale il racconto viene scomposto in 59 singoli capitoli, fra narrazione in stile da cinema-verité e inserti simbolici spesso fini a se stessi.

6

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