Recensione La fine è il mio inizio

Il viatico di Tiziano Terzani firmato dal regista tedesco Jo Baier

Recensione La fine è il mio inizio
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Il regista tedesco Jo Baier dirige la trasposizione cinematografica de La fine è il mio inizio, ultimo libro (pubblicato postumo) del giornalista e scrittore Tiziano Terzani, che prese forma nella cornice bucolica di Orsigna, più precisamente nella casa (dove è stato girato anche il film) in cui lo scrittore trascorse gli ultimi giorni, in esilio con sé stesso e la sua incurabile malattia, e dove rese il figlio Folco ‘depositario' delle memorie di una vita intensa.

Parola di Tiziano Terzani

“Allora, questa è la fine, ma è anche l'inizio di una storia che è la mia vita e di cui mi piacerebbe ancora parlare con te per vedere insieme se, tutto sommato c'è un senso”.

Hic et nunc

È qui e ora che si dipana il filo dei ricordi di Tiziano Terzani, uomo di encomiabile spirito prima ancora che giornalista-esploratore profondamente affascinato dall'Oriente, sulla sua lunga vita pregna di irripetibili esperienze. Un viaggio che corre attraverso i binari di terre geograficamente distanti dalla terra d'origine del giornalista, eppure spiritualmente molto vicine all'uomo, curioso e intraprendente come pochi. Un viaggio nella memoria che il regista Baier sceglie di percorrere senza flashback o immagini storiche, e che rievoca le tante esperienze - soprattutto orientali (Vietnam, Cina, Filippine, Giappone, India) fatte da Terzani negli anni - unicamente attraverso il racconto che lo stesso giornalista (interpretato da un gigionesco Bruno Ganz) rende a suo figlio Folco (Elio Germano) con il duplice obiettivo di lasciare traccia del suo ‘valoroso' percorso umano e condividere il privilegio dell'esperienza con suo figlio in primis e, poi, tramite il libro che questi scriverà dopo la morte del padre, con il mondo intero. Un libro che è resoconto e insieme identità di un uomo e che raccoglie ed elabora la ricerca del senso (ultimo) della vita, inseguito e bramato da Terzani per la sua intera esistenza attraverso le sue grandi passioni: il giornalismo, l'Oriente e la fotografia. La continua ricerca, e talvolta scoperta, di luoghi remoti e reconditi capaci di fermare la clessidra del tempo in divenire, o di luoghi dagli afflati infiniti, a precipizio sul nulla (come il Mustang o il ‘piccolo' Tibet che Terzani ricreerà sull'altura toscana di Orsigna, un eremo bucolico incastonato tra gli Appennini, oltre il quale si dispiega un suggestivo e amplissimo panorama ascetico). Ed è proprio da questa cornice che Baier riparte per fissare il discorso di un uomo che il corpo sta abbandonando ma che la mente, ancora lucidissima, continuerà a illuminare fino agli ultimi frangenti e oltre, tramite le luci di una viva memoria.

Un dialogo sui massimi sistemi, quindi, oseremmo dire, che attraversa riflessioni escatologiche legate al senso della vita e al suo inscindibile rapporto con la morte, della quale Terzani percepisce la presenza ma non la minaccia, essendo l'unica cosa che nella sua lunga vita egli non abbia ancora sperimentato: "Ormai mi incuriosisce di più morire. Mi rincresce solo che non potrò scriverne". Spiritualmente appagato dalla vita, Terzani è infatti pronto a compiere il suo ‘viatico' in serenità, o almeno è ciò che egli vuole far credere al mondo.


Dissonanze

Avendo scelto di elaborare un film tutto al presente, senza alcun rimando visivo al passato di cui si parla, e che si rivela per buona parte come un duetto teatrale (interrotto solo dalla saltuaria comparsa sulla scena della moglie di Terzani e da quella della figlia Saskia nelle ultime scene) tra Terzani e suo figlio, l'intero costrutto filmico regge sulle interpretazioni e i dialoghi che intercorrono tra i due protagonisti, la cui aura filosofico-esistenziale è cullata dallo struggente ambiente naturalistico (attraversato da una luce soffusa e naturale) che fa da sfondo, e dal lieve ma suggestivo contrappunto musicale a opera di Ludovico Einaudi. Ed è proprio nella dissonanza tra l'elevato valore morale e la resa a tratti troppo scarna (dialoghi e riflessioni che appaiono in più di un frangente troppo poco approfonditi, se non banalmente resi) dell'uomo Terzani che il film di Baier perde di efficacia, mancando di emozionare o infiammare come ci si aspetterebbe. Sintomo delle mancanza di un'alchimia emotiva che metta lo spettatore nella condizione di assaporare il senso dell'attesa salvifica di cui il film si fa portavoce, è il piano a tratti sfasato sul quale i due protagonisti interagiscono (un ipercomunicativo Bruno Ganz e un trattenuto Elio Germano), che riescono solo in piccola parte nell'intento di raffigurare il rapporto notoriamente contrastato e controverso (animato da sentimenti estremi, qui molto smussati) tra padre e figlio. L'immagine un po' sbiadita dunque di un affresco che avrebbe avuto necessitato di tinte forti, più accese per narrare la figura di un uomo che di certo sbiadito non era. Nonostante sia dunque apprezzabile la scelta filmica ‘estemporanea' (lontana da ogni logica commerciale) praticata da Baier, resta la sensazione di un lavoro di scrittura e di interiorizzazione dei personaggi poco articolato o riuscito che inficia la profondità artistica del lavoro, privo di quel ‘salto di qualità' cui Terzani alludeva spesso.


La fine è il mio inizio Nel pur apprezzabile lavoro del regista tedesco Jo Baier, intento a riportare in vita la luminosa figura del giornalista e scrittore Terzani tramite gli ultimi momenti della sua intensa vita, manca quel guizzo di vitalità, nervatura esistenziale di caratterizzazione di dialoghi e personaggi in grado di fondere l’anima di una scena con l’anima dello spettatore. Una mancanza sensibile che crea dissonanza tra il valore estetico del film e quello contenutistico, in più di un frangente incapace di reggere il confronto col primo.

5.5

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